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Politica
giugno, 2022

Elezioni amministrative, ora Giorgia Meloni prova il sorpasso su Matteo Salvini

La leader di Fratelli d’Italia nella tornata elettorale si gioca il primato nel centrodestra. Con parole d’ordine per conquistare il nord. E la testa già a Palazzo Chigi

La canzoncina che la porterà fino alle elezioni politiche del 2023 Giorgia Meloni ha cominciato a intonarla a Genova, nel comizio di una settimana fa. È il rap del pedalino, nascosto in una piega di metà discorso: «Non siamo voluti andare al governo finora: perché non siamo pronti? No: perché vogliamo governare alle nostre condizioni. Non per vivacchiare, ma per rivoltare l’Italia: come un pedalino, si dice a Roma. Come un calzino», ha gridato sotto al tendone mentre la platea - cinque-seicento persone al Porto antico - veniva giù dagli applausi. Come accadeva ai tempi di Tangentopoli, quando il pm Piercamillo Davigo era agitato da identico proposito. Così adesso lei: col corpo in piazza, la mente già al governo, il pedalino nel cuore. Forse era così anche nei mesi scorsi: adesso di sicuro.

 

«Siamo solo all’inizio», sospira in piazza uno dei suoi collaboratori più stretti, traguardando il tempo a venire che si annuncia scarso di momenti di riposo e il timore, serpeggiante, che Salvini si inventi «un altro Papeete», ossia butti giù il governo in piena estate. Meloni ha aspettato di arrivare alle ultime due settimane di campagna elettorale per incominciare, tappa per tappa, città per città, un racconto che fino alle politiche non dismetterà più: quello di una destra conservatrice e moderata, «estremamente rigida», «estremamente concreta», sempre meno populista, impastata di volontarismo e meritocrazia («il merito è la benzina del mondo»); quel liberalismo che una volta si sarebbe detto di una sinistra alla Enrico Morando e ora, come riscoperto, è una terza via blairiana portata a destra («creare la condizioni per essere uguali nel punto di partenza»); uno slancio che va dal volli fortissimamente volli («la volontà, la determinazione, la disponibilità al sacrificio, la passione fanno tutto») fino a una sorta di mental coaching all’ombra della fiamma che fu missina («non bisogna accettare i limiti imposti dagli altri»).

 

Una destra di nuovo impasto, berlusconiana ma senza Berlusconi e, ormai, più atlantista di lui: Meloni, da politica di professione, vuol parlare gli imprenditori («la politica non deve fare scelte facili, ma scelte giuste»), batte il nord assai più che il sud, parla di imprese vessate dallo Stato, di made in Italy, dice che «la casa è sacra», si colloca all’opposto esatto del reddito di cittadinanza, parla di «rivoluzione della normalità», «piccole cose di buonsenso», vuol tagliare le tasse sul lavoro.

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Una leader che piace alle donne di destra. Per Meloni stravedono, in lei si rispecchiano: sotto al palco si raccoglie autentica adorazione. Nulla, naturalmente, di femminista: ma una novità assoluta rispetto al machismo berlusconian-infantilista (modello Bunga-bunga) e al machismo salvinian-adolescenziale (modello Papeete). Le donne vogliono il selfie, l’autografo sul libro, la sigla sul santino, le stringono la mano, le fanno una carezza e financo - gesto ormai eversivo – l’abbracciano stretta. Casalinghe, studentesse, imprenditrici. A La Spezia alle 11 del mattino madri con i figli nel passeggino, sotto il sole a sentire parlare male del governo dei migliori. A Lucca la domenica pomeriggio romane toscanizzate curiose di capire se c’è sostanza, oltre al personaggio. A Genova, il visibilio. «Giorgia si muove in un mondo molto difficile per le donne, è una leader, non un boss. Io sono un boss, e per questo difficilmente ispirabile: ma lei mi ha ispirato», dice Fulvia, imprenditrice nella nautica, mentre dietro di lei passano a cadenza regolare quelli che - a decine - hanno fatto la fila per salutarla.

 

Con queste armi, il profilo di opposizione a tre governi di colore diverso, l’atlantismo sempre più spinto, le scarpe raso terra, il fuoco amico dei supposti alleati più insidioso di quello dei supposti avversari, Giorgia Meloni si prepara, per la prima volta, al sorpasso in carne e ossa. Non solo quello delle previsioni. Ci era andata già molto vicino sei mesi fa, autunno 2021, quando nonostante il disastro dei candidati unitari, alle Comunali aveva preso quattromila voti meno di Matteo Salvini a Milano, era andata pari con la Lega nei Comuni dell’Emilia Romagna, ampiamente sopra a Bologna (12 contro 7 per cento). Queste elezioni amministrative rappresentano un passaggio in più. Sono la prova generale delle prossime politiche, dove si giocherà la battaglia per la leadership, e quella del futuro del centrodestra. E rappresentano, nello stesso tempo, il primo esperimento sul campo per saggiare nella realtà quanto siano solidi i sondaggi che, negli ultimi mesi, hanno visto salire Fratelli d’Italia fino ad occupare il primo posto tra i partiti italiani. Reggerà l’orizzonte?

L’odore del sorpasso sta tutto nei programmi dei due leader del centrodestra negli ultimi giorni di campagna elettorale, fino alla chiusura assieme a Verona - città dove con Federico Sboarina si realizza l’insolita alleanza Lega-Fdi, senza Fi: l’agenda di Matteo Salvini, sempre più lunga, densa di incontri, sterminata, in recupero; quella di Giorgia Meloni, sempre più concisa, stringata, di slancio. Dieci appuntamenti al giorno lui, due lei: indovinare chi sta indietro nelle rilevazioni (pur ormai riservate). Le polemiche innescate alla vigilia del voto dal leader leghista, rimandate indietro da lei col silenziatore. Meloni del resto nei comizi in giro per l’Italia dà una rappresentazione precisa, utile pure a capire quale sarà il suo orientamento, non troppo guerrafondaio, nei prossimi mesi: dice infatti che il centrodestra «normale» è quello unito, che l’anomalia sta nel governo nazionale e nella scelta di voler stare a Palazzo Chigi «con una sinistra che non è poi così presentabile».

 

Un’alleanza che Meloni considera priva di alternative: «Io voglio governare con il centrodestra», e punto. Preferibilmente in posizione di comando, è chiaro. Nelle città in cui l’alleanza c’è, chiarisce infatti che «è così che si dovrebbe essere ovunque: compatti». Ma, nei posti come Lodi e Monza, in cui per di più vuol contendere a Salvini il primato, aggiunge maliziosa, rivolta alla piazza: «L’unica cosa che vi manca di scoprire, per pensare di poter fare ancora meglio, è una amministrazione con un ruolo molto, molto importante di Fratelli d’Italia». Al contrario, nei comuni dove il centrodestra si presenta diviso, come a Parma, chiarisce: «La scelta che abbiamo fatto racconta Fdi: non siamo un partito che si accontenta, che vuole vivacchiare, siamo un partito che vuol fare la differenza, che non ha mai accettato i limiti imposti da altri».

 

E in effetti Meloni, alla faccia della modestia, già cinque anni fa diceva di aspirare a Palazzo Chigi: la differenza è che allora nessuno la prendeva sul serio. Quando Giovanni Minoli, col solito fare liquidatorio, le chiedeva: «Lei, al massimo, potrebbe fare il ministro, se vince il centrodestra: che ministero le piacerebbe?». E lei osava rispondere: «No, rifiuto questa lettura: io vorrei fare il presidente del Consiglio». Era il dicembre 2017, era stata appena rieletta presidente di Fratelli d’Italia, si aggirava sul 5 per cento. Non era «il principale partito di opposizione», come la chiama adesso il presidente del Consiglio Mario Draghi. Non aveva assunto l’estetica da Evita Peron, nella versione cinematografica di Madonna, coi capelli raccolti e gli orecchini grandi. Non era «cintura nera di selfie», come adesso. Si presentava più sorridente, ridacchiante, meno sicura. «Mettetevi in fila e preparate i telefonini con le telecamere sulla modalità selfie; poi me li date e alla foto ci penso io, che facciamo prima», è capace di intimare adesso alla fine del comizio a chi si accoda sotto il palco per avere uno scatto insieme - rito principale della politica contemporanea.

 

Nulla del resto in lei è lasciato al caso, alla faccia della spontaneità da Onorevole Angelina che lei pure ci mette (sempre meno). Vale anche in prospettiva: «Quando toccherà a Fratelli d’Italia governare questa nazione, io non vorrò fare figuracce», assicura. Chiaro, no? Preparazione alquanto ossessiva su tutto, basta guardare le facce tese dei dirigenti locali di Fratelli d’Italia, che marciano dritti da un evento all’altro, sempre pronti pure loro alle foto, al sorriso, sempre attenti anche loro all’inquadratura. «Va bene che c’è il sole, per adesso restate all’ombra, ma vi prego quando arriva Giorgia di avvicinarvi al palco perché altrimenti le fotografie vengono male», domanda gentile il coordinatore provinciale Davide Parodi.

 

La piccola folla, davanti al Teatro Civico di La Spezia, c’è da dire, obbedisce: cittadini-spettatori, ormai abituati come si fosse in un set cinematografico. Gente che, alla fine, Meloni chiama pure in causa: «Perché siamo in democrazia, siete voi che decidete chi fa cosa», dice contro il governo Draghi e pro domo sua. Dovrà prendere un voto in più di Salvini e Berlusconi, per poter diventare colei che il centrodestra porterà come possibile premier. Proprio per questo, sin da ora, non potendo attaccare i suoi alleati attacca i loro, di alleati. E volendo risparmiare il Pd di Enrico Letta, finisce per costruirsi un curioso nemico, di comizio in comizio. Una specie di Golem autoprodotto: una terrificante sommatoria di Roberto Speranza, Luigi Di Maio e Danilo Toninelli, ricordati tra i fischi, ciascuno per il suo ruolo ministeriale, uniti sotto il fantasmagorico appellativo di «sinistra sessantottina dell’uno vale uno», citati al solo scopo di prendere tutta la distanza possibile da Salvini, che appoggia e ha appoggiato i governi che li videro ministri. «Con la pandemia, il ministro della Salute era Speranza. È crollato il ponte Morandi e ministro delle Infrastrutture era Danilo Toninelli. C’è la guerra e agli Esteri abbiamo Luigi Di Maio. E poi dite a Fratelli d’Italia che non ha classe dirigente?», domanda Meloni, retorica e sorniona. Un attimo prima di firmare la cambiale: «Vi garantisco che questi ministri, con noi al governo, non ve li ritroverete».

 

E chi sa: vista la dichiarata grafomania e l’asserita importanza di non farsi attribuire limiti, è capace che abbia già la lista in tasca.

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