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Cultura
giugno, 2022

Emery Diyabanza, il Robin Hood che ruba le opere africane per decolonizzare i musei

Belli. Artistici. Ma soprattutto sacri. Gli oggetti razziati dagli europei devono tornare nei Paesi d’origine. L’attivista congolese racconta la sua lotta. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia culturale arabo-islamica

Lo hanno chiamato Robin Hood, perché ruba ai musei le opere razziate dai colonizzatori per restituirle ai popoli africani. Per tre volte, nel 2020, il congolese Emery Mwazulu Diyabanza ha portato via da famose istituzioni europee di arte africana oggetti provenienti dalle ex colonie. Le opere sono state recuperate, Diyabanza e i suoi sono stati processati ma lo scandalo ha avuto un peso fondamentale nelle trattative che stanno portando molti Paesi a restituire opere africane conservate ingiustamente nei loro musei.

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Di queste provocazioni, e dell’operato molto più diplomatico del Multicultural Front against Pillaging di cui è fondatore, Diyabanza ha parlato a Palermo, nel corso del convegno intitolato “Non è più tempo di negare”: un incontro organizzato dalla Fondazione Studio Rizoma che ha riunito per una tre-giorni di conversazioni, proiezioni e concerti artisti e attivisti africani ed europei, come Bénédicte Savoy, consulente di Macron per la restituzione al Benin del tesoro di Abomey, l’artista e antropologo Leone Contini ed Evelyn Acham, del movimento Fridays for Future africano. Al centro dell’incontro, la decolonizzazione dei musei e dell’immaginario europeo: argomenti che tornano in questa intervista a Diyabanza.

 

Lei ha fondato il Fronte multiculturale contro la spoliazione. Può spiegarci di cosa si occupa e quali risultati ha ottenuto finora? E perché lo ha definito “multiculturale”?
«Il fronte è una confederazione che riunisce clan, famiglie e nazioni a cui è stato sottratto il patrimonio, l’eredità culturale. Lo abbiamo fondato prima di tutto per mettere la parola fine a questi furti, che continuavano non solo in Africa ma anche ai danni di altri popoli. Per questo lo abbiamo definito multiculturale: anche i popoli d’Asia e di Oceania sono stati derubati dei loro patrimoni, e anche gli amerindi o i chicanos. Tutti loro fanno parte del Fronte. Ci sono anche rappresentanti dei popoli dell’India che reclamano opere conservate al British Museum o in altri posti della Gran Bretagna. Tutti insieme, non solo africani ma persone di tutti i continenti, possiamo mettere fine alla spoliazione dei patrimoni dei popoli della terra. E possiamo ottenere la restituzione del patrimonio che è stato saccheggiato e chiuso in musei europei».

 

Cosa avete ottenuto finora?
«Il primo risultato, che non era affatto scontato, è stato di riuscire a riunire nel Fronte clan, tribù, dinastie reali e popoli così diversi. Ognuno di loro mantiene ovviamente la propria identità, ma si uniscono intorno a una rivendicazione comune. Questo implica prima di tutto un aspetto culturale, ma anche politico, perché dobbiamo arrivare a elaborare convenzioni, leggi, trattati che vadano nel senso della restituzione e della giustizia. E della punizione per quelli che possano essere identificati come ladri o ricettatori. Questo è lo spirito del trattato in 13 punti che abbiamo redatto a nome del Fronte».

 

Chi giustifica la conservazione delle opere d’arte africane nei musei europei sottolinea che così vengono viste da un pubblico più vasto, e quindi diffondono la conoscenza delle civiltà fuori dal continente d’origine. Lei cosa risponde?
«Il punto di partenza è che tutti, l’Europa in particolare, devono capire che queste opere non sono solo oggetti scientifici ma hanno anche un mantello sacrale, culturale e spirituale. La maggior parte di esse non erano state realizzate per essere viste da tutti: erano oggetti sacri che l’Europa ha denudato, violentato, privato della sacralità esponendole allo sguardo di tutti. Noi vogliamo porre fine a questo, perché finalmente le opere che non sono destinate alla visione del pubblico tornino dove devono stare. Quelle che invece possono essere esposte devono esserlo nel rispetto dell’identità del proprietario. Oggi nei musei europei noi non vediamo il racconto di queste opere, ci viene offerto solo un riassunto brevissimo e non c’è mai la traduzione nella lingua d’origine. E invece ci vuole rispetto: rispettare un’opera significa anche ricostruire l’ambiente culturale e linguistico nel quale è stata prodotta. Quindi anche le lingue africane collegate alle opere dovrebbero essere messe in mostra per permettere una comprensione vera del paradigma che ha portato alla creazione, e del significato profondo del nostro patrimonio. Quanto al pubblico, possono anche spostarsi per venire in Africa! Non può più essere l’Europa l’unica destinazione per conoscere il mondo: già per fare le università tutti sono obbligati ad andare in Europa. Per fare esperienza i dirigenti africani devono venire a studiare politica, economia, sicurezza, e questi studi poi aprono a eserciti e militari europei che vengono in Africa… Il posto migliore per quelle opere è da noi perché è il nostro patrimonio, non possiamo esserne è privati. Abbiamo il diritto di avere accesso alla nostra eredità culturale: è uno dei diritti elementari dell’uomo. E le nazioni europee occidentali, che sono costruite sulle fondamenta dei diritti dell’uomo, dovrebbero capirlo meglio di chiunque altro».

 

I suoi “furti di arte rubata”, atti di disobbedienza civile per attirare l’attenzione sulle spoliazioni coloniali, sono diventati famosi in tutto il mondo. Ma che ne è stato poi di quelle opere? Sono ancora in quei musei?
«Prima di tutto una rettifica: non si è trattato di furti ma di atti di diplomazia attiva, che consiste appunto nell’andare a riprendere ciò che è stato rubato senza chiedere il permesso a chi lo detiene ingiustamente. La maggior parte delle opere sono state recuperate dalla polizia: quella di Quai Branly a Parigi, quella del museo Maaoa di Marsiglia e anche quella di Berg En Dal in Belgio, fino a prova contraria sono di nuovo esposte. Ma noi stiamo pensando di tornare a prenderle, perché è importante che il ladro capisca che la nostra determinazione non è contro di lui né come persona né come istituzione: il nostro scopo è ottenere un risarcimento. Prima di tutto per riconciliarci con la nostra storia, placare i nostri spiriti e far cicatrizzare le ferite che sono state aperte da questi atti orribili di barbarie e di saccheggio. E poi è un’occasione che noi offriamo ai diversi popoli, istituzioni e governi d’Europa, perché possano ripulire la loro memoria da tutti quei secoli di ignominia e menzogna, in modo che la riabilitazione della verità storica sia all’ordine del giorno. La maggior parte di quelle opere sono ancora rinchiuse, incarcerate, ma la nostra opera ha ispirato qualche restituzione: al Benin, e in due o tre altri casi. E ora il Belgio è pronto a restituire tutto quello che ha sottratto alla Repubblica del Congo: è già stato preparato il catalogo informatizzato».

 

I cittadini italiani possono fare qualcosa per sostenervi?
«È proprio questa l’essenza del Fronte Multiculturale contro le spoliazioni, è per questo che parliamo di multiculturalismo: per aprire la porta ai popoli d’Europa e anche a quello italiano. Questo popolo che ha aiutato i fratelli d’Europa ad avanzare trasmettendo i valori e i fondamenti della civiltà attraverso l’antica Roma può capire meglio di altri la nostra missione, perché conosce l’importanza grandiosa del patrimonio storico e culturale, delle opere d’arte di cui tutto il mondo si ricorda. Pensate cosa sarebbe l’arte europea senza l’opera di Picasso, che è stato così profondamente ispirato dalla ricchezza culturale africana. Gli italiani possono aiutarci a diffondere il nostro messaggio là dove non riusciamo a farlo arrivare perché ci fermano frontiere reali o linguistiche. Possono far sentire il loro peso nelle istituzioni nazionali ed europee perché si arrivi all’essenza del concetto di restituzione. E possono ovviamente contribuire finanziariamente per aiutarci a portare avanti queste lotte che richiedono sacrifici, energia e mezzi. Tutto secondo i principi del nostro movimento: unità, dignità e coraggio».

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