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Economia
luglio, 2022

La Cina ha in mano quasi tutto il litio del mondo

La tecnologia e le materie prime per le batterie sono nelle mani di Pechino, da cui produttori di auto elettriche dipenderanno nei prossimi decenni. Uno scenario che però si continua a sottovalutare

Qual è il sottile filo rosso che lega due affermazioni rese negli ultimi giorni a migliaia di chilometri di distanza? Ecco le frasi: «I cinesi, nella loro millenaria saggezza, hanno saputo posizionarsi per tempo. Nell’auto, come in generale, il centro di gravità del mondo si sta spostando verso Est» (Luca De Meo, amministratore delegato della Renault, intervistato dal Sole 24 Ore). «Avverto un forte senso di sconforto e paura nell’immaginare che l’East Asia possa essere l’Ucraina di domani» (Fumio Kishida, premier giapponese, per giustificare in patria la presenza del suo Paese, della Nuova Zelanda, dell’Australia e della Corea del Sud all’ultimo vertice Nato, cui hanno giurato fedeltà).

 

Il risultato del rebus è il seguente: la Cina fa paura, come e forse più della Russia con la quale sta cementando un’inquietante alleanza. Fa paura più economicamente che militarmente, anche se la questione Taiwan è sempre aperta. I Paesi democratici dell’area del Pacifico avvertono perciò la necessità di fare fronte comune con l’occidente. È giocoforza però, il che complica maledettamente le cose, accettare la superiorità tecnologica di Pechino in alcuni settori a partire dall’auto elettrica, dove per un diabolico gioco del destino si gioca in questi anni una partita epocale. Se non interverranno improbabili ripensamenti, entro il 2035 non potranno più essere venduti modelli a benzina o diesel, ma solo auto elettriche: in questo senso si sono espressi, non senza un aspro dibattito, sia il Parlamento sia il Consiglio europeo (in una serrata maratona notturna di fine giugno a Lussemburgo).

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La commissione dovrà dire una parola definitiva in autunno ma la direzione sembra tracciata. «Allora partirà quella che è a tutti gli effetti una rivoluzione pari a quelle che nei secoli scorsi hanno comportato l’automazione nell’industria e lo sviluppo dei trasporti ferroviari o, appunto, automobilistici», sentenzia Jeremy Rifkin, guru degli economisti-ambientalisti. La novità è che la Cina per la prima volta avrà un ruolo di primissimo piano: quindi con il Dragone è meglio avere buoni rapporti, ed essere protetti da suoi eventuali “sgarbi”.

 

Fra non più di 13 anni, solo auto elettriche usciranno dalle fabbriche di tutto il mondo. Bmw, Volkswagen, Stellantis (il gruppo che ha riunito Fiat-Chrysler e Peugeot), Ford, General Motors e tutti gli altri giganti del settore devono affrontare una colossale riconversione, un’operazione senza precedenti per dimensioni, occupazione e ambizione nella storia dell’industria. E anche un’inedito “affidamento” a un unico Paese che detiene la tecnologia-chiave, quella delle batterie elettriche a ioni di litio che sono quelle che servono per le auto. La Cina ha investito decine di miliardi di dollari negli ultimi trent’anni per realizzare e sperimentare la tecnologia per le batterie, e intanto per acquistare uno per uno i diritti di sfruttamento delle miniere di litio - il minerale di base che si estrae dal sottosuolo in lamine argentate spesso semiliquide proprio come l’argento - ovunque si trovassero: in Australia, soprattutto, ma anche in Cile, in Argentina, in Zimbabwe e altri Paesi africani.

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Ovunque gli uomini di Pechino sono arrivati e hanno stretto accordi di ferro offrendo fondi e assistenza (anche in tutt’altri settori come l’agricoltura) in cambio del diritto di estrarre e utilizzare nelle loro raffinerie il litio. Oggi i gruppi cinesi (Catl, Byd, Sk Innovation fra i principali) posseggono il 65% della capacità di raffinazione del pregiato metallo. Il resto del mercato è appannaggio dei sudcoreani di Samsung e Lg, che però utilizzano litio importato dai cinesi o estratto nella stessa Cina, che con 2 milioni di tonnellate di riserve è il secondo produttore mondiale dopo l’Australia con 6 milioni e l’Argentina con 2,4, quasi tutti gestiti dai cinesi. Ovviamente il prezzo del litio è quasi quadruplicato negli ultimi dodici mesi, da 6000 a 21mila dollari la tonnellata.

 

Questa presa del potere minerario globale è avvenuta nella sorprendente mancanza di reazione dell’Occidente, che ha assistito inerme all’opera della “millenaria saggezza” come la chiama De Meo, che era il più brillante dei Marchionne Boys, portato dal grande capo a una rutilante carriera da capo via via di Fiat, Lancia, Alfa Romeo, infine del marketing dell’intero gruppo. Scomparso Marchionne nel 2018, dopo pochi mesi se ne è andato in Renault, dove ha trovato una tecnologia dell’auto elettrica già avanzata visto che il gruppo francese aveva cominciato a investirvi nel 2011.

 

Invece Marchionne inizialmente era scettico chiedendosi da dove si sarebbe potuta prendere tutta l’elettricità necessaria. Il tempo ha fatto giustizia dei dubbi, e oggi il quadro - piaccia o no - è chiaro. «I cinesi si sono detti: è inutile fare concorrenza sul piano tradizionale a colossi come le case auto storiche europee o americane, puntiamo tutto sull’hi-tech», commenta Angelo Baglioni, economista internazionale della Cattolica e presidente del think-tank Ref Ricerche. Non si parla solo di batterie: anche il software e perfino i microchip specifici per l’auto (che utilizzano altre terre rare quali cobalto, disprosio, neodimio, promezio, lantanio, lutezio e molte altre, tutte controllate da Pechino), sono oggi appannaggio dei gruppi cinesi con l’appendice coreana e in questo caso taiwanese (ma sempre con materia prima controllata dalla Cina).

 

In questa serrata situazione di monopolio, sono costrette a muoversi le compagnie occidentali. Gli investimenti in campo sono enormi. Stellantis, per esempio, impegnerà per la svolta elettrica 30 miliardi solo da qui al 2025, e proseguirà negli anni successivi con la costruzione di cinque “gigafactory”, le fabbriche di batterie al litio, una delle quali in Molise, a Termoli, sulle ceneri di un vecchio stabilimento Fiat. Inevitabile la partnership con un partner orientale (la Samsung) in un consorzio che comprende Total e Mercedes. Per quanto riguarda i microchip, le speranze risiedono in un’alleanza con la Bmw e la Foxconn a Taiwan. E per la materia prima, sono in corso trattative, come presso tutti i maggiori gruppi automobilistici occidentali, per conquistare i pochi diritti di sfruttamento minerario del litio in diversi angoli del mondo, superando finalmente il blocco cinese.

 

Ma ancora più difficile del salto tecnologico sarà il passaggio cultural-sociale, soprattutto in Italia. «Nel nostro Paese c’è una profonda e diffusa conoscenza e manualità sui motori a scoppio: decine di migliaia di bravissimi meccanici dovranno riconvertirsi in fretta a fare tutto un altro lavoro sui motori elettrici», riflette Gianni Toniolo, storico dell’economia che dopo aver insegnato nelle università americane e inglesi è ora docente alla School of Government della Luiss. «Non sarà un processo facile né indolore perché il retraining non è previsto in Italia, non esistono strutture adeguate né forme di tutela per il lavoratore che si trova improvvisamente in questa necessità né ancora, il che è peggio, politiche attive che aiutino a trovare un lavoro nelle nuove condizioni. Il welfare italiano non è preparato, non favorisce questo processo e i meccanici rischiano di restare disoccupati con prospettive vaghissime sul loro futuro».

 

Al passaggio così brusco verso l’auto elettrica, comunque ancora oggetto di negoziazione in sede comunitaria, si oppone il governo italiano, che ha trovato una solida spalla in quello tedesco oltre che in una mezza dozzina di altri Paesi. La controproposta di Roma è la seguente: disponiamo di una nuova tecnologia, quella dei biocarburanti (ottenuti dagli scarti vegetali) da miscelare a benzina e diesel tradizionali, come peraltro si sta già facendo da qualche anno: è vero che emettono CO2 ma in misura nettamente inferiore ai fossili tradizionali.

 

«Nei paesi scandinavi già sono disponibili biocarburanti in purezza, dal prossimo anno lo saranno anche in Italia, e il loro utilizzo darebbe un importante contributo alla transizione», spiega Giuseppe Ricci, direttore Energy evolution dell’Eni oltre che presidente di Confindustria Energia. «Noi abbiamo ristrutturato vecchie raffinerie destinate all’obsolescenza come Marghera e Gela rilanciandole con i biocarburanti, da usare in modo sinergico e complementare all’auto elettrica: sarebbe controproducente gettare alle ortiche una tecnologia nuova, frutto di un’impegnativa ricerca, senza averle dato il tempo di dispiegare i suoi vantaggi».

 

Ma nel campo dell’innovazione e della valorizzazione delle risorse interne in campo energetico, i precedenti sono poco confortanti. La prematura fine del sogno petrolifero della Val Padana che risaliva addirittura ai tempi di Enrico Mattei, o l’improvvida “quasi-cessazione” dell’estrazione di gas naturale nell’off-shore adriatico e tirrenico (da 20 a 2 miliardi di metri cubi all’anno) lo testimoniano: l’Italia sembra specializzata nel sottovalutare le proprie risorse che invece potrebbero aiutarla in maniera sostanziale. Il problema è che stavolta c’è da convincere l’intera Europa.

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