Il più originale dei fantasy arriva dall’Africa. Si intitola “Dimora di ruggine” (tradotto dall’inglese da Alessandra Castellazzi per 66thand2nd), è ambientato sulle coste che affacciano sull’Oceano Indiano, ed è il primo romanzo scritto da Khadija Abdalla Bajaber. Che i lettori italiani potranno vedere di persona lunedì 18 luglio a Roma, nello Stadio Palatino del Parco Archeologico del Colosseo, in una serata del Festival Letterature che ospiterà anche Alessandro Piperno, Patricia Engel, Petros Markaris e David Leavitt, accompagnati da una lettura di Proust di Laura Morante e da una performance artistica di Teodora Castellucci/Dewey Dell e musica live di Demetrio Castellucci. Dopo questa serata romana, la scrittrice keniana partirà per un tour che la porterà a Torino, Rovereto, Bologna e Granarolo.
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Nata in Kenya da una famiglia hadrami, un popolo originario dello Yemen, grazie a questo romanzo apprezzato da critici e gruppi di lettura in vari continenti Abdalla Bajaber è diventata il simbolo di una narrativa che prende il meglio di varie tradizioni e ne ricava storie capaci di parlare a lettori e lettrici di tutt’altra provenienza. Un risultato che ha sorpreso prima di tutti lei, come racconta in questa lunga, generosa intervista.
Il primo “asso” del suo romanzo è sicuramente Aisha, la protagonista: come la descriverebbe?
«Mi sono sempre piaciuti i personaggi imperfetti, antipatici, sgradevoli, che portano in sé un amore profondo, una profonda malinconia e una profonda rabbia. Volevo che fosse chiaro che Aisha ha un aspetto strano e persino scoraggiante nella sua intensità. Fisicamente, nei suoi lineamenti, non penso che abbia nulla della solita bellezza femminile delle fiabe: diciamo che è il tipo di ragazza di cui non si parla mai in una canzone. Penso che possa essere avventata e che possa sembrare coraggiosa, penso che faccia del suo meglio e abbia molti dubbi su sé stessa. Sicuramente è una persona fuori dal comune, e ha dovuto rendersene conto molto presto».
Aisha ogni tanto sembra un’eroina uscita da una favola tradizionale: però è molto moderna, e decisamente femminista. Cosa l’ha ispirata?
«E come sono queste "eroine"? Davvero, non credo che sia un'eroina, all’inizio del libro lei è… una protagonista che non si è ancora resa conto di essere una protagonista. La storia parla di lei che si risveglia e prende il potere: non so quanto questo sia “moderno”. In quanto al femminismo, quello in cui io credo è modellato su valori e interessi che riguardano la mia parte del mondo. È un femminismo molto swahili, molto musulmano, molto tipico della costa orientale dell’Africa. Quindi sì, Aisha è femminista, ma non la definirei “moderna”: il progresso per le donne non inizia con la generazione attuale, è costruito da e sulle generazioni che ci hanno preceduto. Quello che mi ispira è mettere questa idea al centro della mia cultura: e non mi riferisco solo a questo libro ma ai miei interessi in generale. Significa essere orgogliosi delle nostre origini parlando però anche delle tensioni e delle differenze che ne derivano. Le ferite nella società e le ferite nei cuori delle ragazze strane sono sempre state interessanti per me».
La sua biografia lega Yemen, Kenya e radici hadrami. Quali sono le differenze e quali le somiglianze tra queste tre tradizioni?
«Non saprei dire esattamente: prima mi sembrava che fossero cose molto diverse, ma ora penso che le identità dell'area dell'Oceano Indiano siano molto più complesse dell'essere una cosa o del non essere quella cosa. Tutte queste culture possono essere nettamente diverse, ma sono anche profondamente intrecciate: sono molto simili nei loro valori, nelle loro pratiche. Però anche al loro interno ci sono le tensioni che ho menzionato prima, quelle che nascono dovunque ci siano differenze. Penso di essere costantemente in conversazione con me stessa su questo argomento: sto cercando di approfondire la mia comprensione e di imparare di più, di essere curiosa ma rispettosa, ed è qualcosa su cui ho cambiato idea molte volte, man mano che leggo nuove cose. Le somiglianze e le differenze saranno sempre il cuore danzante del mio lavoro. Non so dire quindi se questo intreccio di tradizioni mi abbia aiutato: di certo è servito a chiarirmi la complessità dell'identità, e a farmi capire che l'idea occidentale di come classificare l'identità non renda giustizia a queste complessità. Io sento queste tensioni, quindi sono presenti nel mio lavoro».
Ma pensa che l’intreccio di tradizioni abbia aiutato il suo libro a raggiungere lettori di ambienti completamente diversi dal suo?
«Beh, la capacità di connettersi deve essere reciproca: lo scrittore deve scrivere buoni personaggi ma il lettore deve essere abbastanza aperto da vedere questi diversi personaggi come umani. Quindi, alcune persone si connetteranno bene con i miei personaggi, alcune persone non lo faranno: e va bene così».
La condizione delle donne è uno dei punti dolenti nel giudizio che l’Occidente dà del mondo arabo-islamico. Lei come risponde?
«Qualsiasi asprezza nel giudizio è un problema della persona che esprime quel giudizio, e non di chi dovrebbe subirlo senza reagire. Sentiamo dire che il progresso non è progresso se non ha l’aspetto che è familiare all'Occidente. Io non sono partita per scrivere un libro femminista, anche se il libro ha temi e idee femministe. Ma quale tipo di femminismo? Il femminismo americano affronterà le preoccupazioni americane, il femminismo britannico affronterà le preoccupazioni britanniche, il femminismo ugandese affronterà le preoccupazioni ugandesi - quindi il femminismo della costa africana deve affrontare le preoccupazioni costiere. Non può avere lo stesso aspetto del femminismo di un'altra comunità, perché spesso non condividiamo nemmeno le stesse lotte, la sensibilità, le preoccupazioni: non è una questione di opinione ma di fatti. Oltre tutto, anche all'interno delle singole comunità ci sono sottogruppi che sperimenteranno lotte, sfide e preoccupazioni diverse. Le società non sono uguali».
Lei porta il velo ma ha scritto un libro profondamente femminista: che rapporto ha con il ruolo tradizionale della donna nell’ambiente in cui è cresciuta?
«Sono ferocemente protettiva nei confronti delle donne nella mia comunità: sono persone con le proprie convinzioni e il proprio modo di fare le cose. Il progresso non è un'invenzione dei giovani o dell’attualità: è la continuazione di ciò che è stato costruito dalle generazioni prima di noi, quindi coinvolge le donne di ogni tempo. Per quanto riguarda il ruolo tradizionale per le donne, io non penso che la tradizione sia incompatibile con il progresso: le donne possono seguire valori tradizionali e avere allo stesso tempo idee o pratiche che gli altri definirebbero "moderne". “Dimora di ruggine” parla di tradizione e di credenze, e mostra che tutto ciò che facciamo deve essere pensato da noi stessi, e non solo fatto perché qualcun altro ce lo dice, o perché così facevano i nostri vecchi - e che dobbiamo estendere reciprocamente empatia e comprensione anche se le nostre filosofie possono differire. Io sono orgogliosa delle nostre pratiche culturali uniche, e penso che la mia comunità debba dare ai suoi individui forza e sostegno. Però, proprio come chiunque altro in qualsiasi società, sono pronta a mettere in discussione idee che mi sembrano superate: sono come qualunque persona che in qualsiasi parte del mondo si arrabbia contro le aspettative che la società in cui vive esercita su di lei. Non è un problema musulmano, ma una caratteristica di ogni individuo consapevole che vive in qualsiasi società. Senza contare che non so cosa significhi davvero "tradizionale": mi sembra spesso solo un modo più educato di dire "conservatore" o "arcaico”. Il cosiddetto ruolo "tradizionale" delle donne musulmane appare in un certo modo a chi fa parte della mia comunità, e in un modo del tutto diverso a chi non ne fa parte! Le narrazioni popolari hanno saturato il mondo con l'islamofobia e questo influenza l’idea dell'Occidente su come è il ruolo tradizionale delle donne musulmane. In fondo è divertente: abbiamo tutti aspettative diverse. E forse no, questa non è davvero una risposta alla sua domanda…»
Vuole dirci qualcosa della sua relazione con quel “Dio onnipotente” che alla fine del suo libro lei ringrazia «per le lezioni dure e per quelle dolci»? A quali lezioni si riferisce?
«La dolcezza nasce dall'amarezza, e l’una rende preziosa l'altra. Ho imparato che vivere è un atto di fede, che devi sopravvivere e devi accettare di provare gioia e di provare dolore. Dio ha organizzato la mia vita nel modo in cui è stata organizzata. Non riesco a immaginare di essere una persona diversa da quella che le mie esperienze hanno costruito, con tutto ciò che dentro di me è forte e ciò che è imperfetto. Ogni trionfo e ogni umiliazione, ogni tipo di legame e ogni tradimento. Tutto questo mi ha reso quello che sono. Non devo vergognarmi di nulla. È un privilegio».
“Dimora di ruggine” è strettamente legato alla tradizione fiabesca araba e africana ma va direttamente al cuore dei lettori occidentali. Pensa che ci sia un gusto universale per il fantasy che unisce i personaggi fiabeschi di ogni cultura? Il fantasy può unire il mondo?
«In un film che si chiama “Leoni di seconda mano”, uno dei personaggi dice una frase che mi è rimasta impressa: “A volte le cose che possono essere vere o no, sono le cose in cui si ha più bisogno di credere. Che le persone sono fondamentalmente buone; che l’onore, il coraggio e la virtù significano tutto; che il potere e i soldi, i soldi e il potere non contano niente; che il bene trionfa sempre sul male; e che – voglio che tu lo ricordi sempre – l’amore non muore mai. Ricordalo ragazzo, ricordalo. Non importa se è vero o no. Vedi, bisogna credere in queste cose perché queste sono le cose in cui vale la pena di credere”. È una frase che mi ha davvero commossa. E forse ci credo davvero. Le storie non possono unire tutti, non sono destinate a farlo. Ma forse a volte possono salvare qualcuno. Un lettore, o a volte il narratore. Io voglio credere che tutti noi abbiamo bisogno di meraviglia, di fantasie ridicole e di avventure sfrenate, di leggere cose che non avremmo mai potuto pensare da soli. È per questo che così tante persone amano la storia di una ragazza che viene indotta con l'inganno a lavorare per dei demoni, o di una spada che solo l’eletto può estrarre dalla pietra, o di una porta che conduce a regni selvaggi. Vogliamo sperimentare in sicurezza la paura, l'orrore, il coraggio, l'amore e la gioia, e vogliamo sapere che non siamo gli unici che amano queste cose. Baldwin ha scritto: “Pensi che il tuo dolore e il tuo crepacuore siano senza precedenti nella storia del mondo, ma poi leggi. Sono stati i libri a insegnarmi che le cose che mi tormentavano di più erano proprio le cose che mi legavano a tutte le persone che erano vive, e a tutte quelle che erano state in vita”. Non è una questione di genere letterario. La scrittura cerca la connessione, e non è importante che questo porti all'unità. In realtà io stessa, mentre scrivo, racconto una storia perché ho bisogno di ascoltarla. Lo scrittore scrive anche per il proprio piacere: non solo per far capire qualcosa al lettore, ma perché cerca lui stesso di capire. Non solo per dire alle persone in cosa credere, ma per scoprire in cosa crede lui stesso. Leggere e scrivere implicano entrambi un elemento di scoperta e alla fine ci rendono reciprocamente umani e familiari».
Per finire, ci spiega la frase che fa da epilogo al libro?
«Ho concluso il libro secondo una tradizione swahili, che però è presente sia nella tradizione araba che in quella musulmana: “Questa storia è raccontata da Khadija Bajaber. Se c'è del bene in esso, allora quel bene appartiene a tutti, se c'è del male in esso, allora quel male appartiene solo a colei che l'ha raccontato”. Questo racchiude tutta la filosofia che provo nel raccontare storie. Prima di tutto, devo presentarmi per assumere la proprietà della storia e per assicurarmi di essere responsabile dei suoi contenuti. Poi devo riconoscere che, nonostante la mia intenzione, una storia può aiutare ma anche nuocere. Il terzo punto è che il buono in essa contenuto è destinato a essere condiviso, il quarto è che lo scrittore e la storia sono umani e quindi imperfetti, ma che se sbaglio il disonore riguarda solo me. Diciamo che nel mio cuore vorrei il miglioramento di tutti, ma so che realisticamente questo non è possibile. Posso toccare solo ciò che posso raggiungere: ma questo è già abbastanza».