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Attualità
agosto, 2022

Lo sguardo di Leila Alaoui, l’artista che catturava le contraddizioni dell’Islam

Venezia celebra la fotografa franco-marocchina rimasta uccisa a 33 anni in un attentato terroristico in Burkina Faso nel 2016. Dalla moda ai reportage, nel suo lavoro la passione dell’antropologa concentrata sulle persone

Sorride Leila Alaoui, nel ritratto che accompagna la mostra delle sue fotografie. Sono serissimi invece i protagonisti degli scatti, scelti tra centinaia che lei ha realizzato nei tre anni di lavoro sul progetto intitolato “Les Marocains”. L’appuntamento è a Venezia fino al 27 novembre, al Fondaco dei Tedeschi in collaborazione con Galleria Continua. La cura è della Fondazione Leila Alaoui: perché lei, Leila, non c’è più. Lei così impregnata di quel mondo islamico da cui venivano il suo nome («notte»), il suo cognome e i tanti anni vissuti a Marrakesh, è stata uccisa da terroristi islamici in Burkina Faso nel 2016.

«È incredibile la quantità di fotografie che ha lasciato», dice sua madre Christine Alaoui, francese con un nonno italiano. «Abbiamo incaricato una storica dell’arte svizzera di fare un inventario: ci ha messo due anni. È come se Leila avesse saputo di avere i giorni contati», commenta con un tono fermo, assuefatto alla tristezza. E aggiunge: «Il dieci luglio di quest’anno avrebbe compiuto quarant’anni, è un momento difficile per noi».

«Cosa si può dire di una fotografa morta a 33 anni?», ci si potrebbe chiedere, parafrasando l’inizio di “Love Story”. Perché è facile, raccontando una storia come questa, cadere nel patetico. E allo stesso tempo alzare un sopracciglio e pensare: «Poverina, sì: però se non fosse morta chissà che effetto farebbero oggi le sue foto». Per questo è importante, prima di ripercorrere la sua vita con l’aiuto della madre, ricordare che Alaoui aveva avuto una quantità di riconoscimenti.

Le sue foto sono state pubblicate sul “New York Times” ed esposte in tutto il mondo: alla Konsthall di Malmoe in Svezia, al palazzo nazionale della cittadella di Cascais in Portogallo, al Musée des Beaux-Arts di Montreal in Canada e infine alla Maison européenne de la photographie di Parigi, in un’esposizione che terminava proprio il giorno dell’attentato. Ricorda Christine: «Dopo l’inaugurazione mi disse ridendo al telefono: “Pensa, quel matto del direttore, Jean-Luc Monterosso, mi ha detto: Leila, tu resterai nella storia come una delle fotografe più importanti della tua generazione”».

Per i suoi lavori su migranti e immigrati, Alaoui ha collaborato con istituzioni internazionali come il Danish Refugee Council, la Ong americana Search for Common Ground e l’agenzia delle Nazioni Unite, la Unhcr. Quel 15 gennaio del 2016 era a Ouagadougou per un incarico di Amnesty International sui diritti delle donne. Il suo autista, Mahamadi Ouédraogo, aveva parcheggiato davanti al bar Cappuccino subito prima dell’attentato. Ouédraogo è morto sul colpo, Alaoui tre giorni dopo, portando a trenta il numero delle vittime.

Una morte che è tragicamente paradossale, per una fotografa che ha lavorato molto sul legame tra la condizione dei poveri del mondo arabo e dei migranti in Europa e il successo del proselitismo, una che anche nel so lavoro, spiega la madre, «cercava di capire perché quei giovani finivano per diventare terroristi». Non era sempre facile, con quella sua eleganza di “arabopolitan” a suo agio nel jet-set tra Parigi, New York e Marrakesh: «Una volta è andata a fare un servizio sugli immigrati nelle bidonville del Marocco per il New York Times e gli abitanti marocchini l’hanno spintonata, le hanno sputato addosso perché si occupava di “quella gente lì”».

A New York Leila aveva studiato antropologia e sociologia, e si vede: «L’hanno definita un’antropologa con la macchina fotografica, e in effetti per lei fotografare era un modo per affrontare un problema di persone che la interessavano». Un’antropologa che aveva una facilità di incontro con il mondo islamico ma che non si fermava lì: tra i progetti rimasti interrotti c’è un documentario sugli operai dell’Ile Seguin, la storica fabbrica della Renault vicino a Parigi, e un migliaio di ritratti di operai in India.

 

Alle immagini si era avvicinata da bambina grazie a quello che per sua madre è sempre stato solo un hobby: «Non ho mai esposto una foto, ma ho sempre una macchina fotografica con me. E i miei figli, da piccoli, mi aiutavano a sviluppare le immagini», racconta Christine. «Nei miei ricordi, Leila è sempre di corsa: da bambina non sapeva attraversare la strada senza correre, per scendere le scale – non so come facesse! - si metteva in equilibrio sulla pancia come se fosse su uno scivolo e si lasciava cadere giù. Avevamo un rapporto strettissimo, ma io non sono come lei. Mi spingeva sempre ad essere attiva, a fare cose, a viaggiare, mi sgridava se rinunciavo a qualcosa: e adesso, a 71 anni, mi ritrovo a fare tutte le cose che lei avrebbe voluto per me…».

 

Dopo la sua morte, ha parlato a nome di Leila sua sorella Yasmine, un’artista che vive a New York, in un testo fortissimo che unisce il perdono degli assassini e la condanna dei «mandanti»: «Sai, ho incontrato molti giovani della tua età durante la realizzazione di “Crossings”, un video sui candidati per l’immigrazione clandestina. Sai cosa, ti assomigliavano come delle gocce d’acqua. Guardandoli, ti vedo con il tuo kalashnikov puntato su di me e sui miei vicini del bar Cappuccino. Sapevo che tu avresti sparato quando li vedevo salire sulle imbarcazioni di fortuna e perdersi nelle onde alla ricerca di una vita migliore. Stessa foga. Stesso stato alterato, quasi di trance, dove nessun’altra alternativa è possibile. Tu spari. Loro si imbarcano. La mafia che gli vendeva Parigi, Madrid, Milano o Bruxelles, è la stessa che ti ha venduto il Paradiso, con le sue settantadue vergini, i fiumi di vino, il miele che cola dagli alberi… il linguaggio cambia, ma le mafie restano le stesse, siano esse religiose oppure no».

A Venezia, “Unseen stories” accosta i ritratti di “Les Marocains” e il video “Crossings”: la dignità degli africani legati alle tradizioni della loro terra e le traversie di chi è costretto ad affrontare violenze, deserto e mare per inseguire il sogno dell’Europa. Il primo progetto, che univa l’ispirazione dei ritratti di Robert Frank a quelli di Richard Avedon, è costato alla fotografa lunghi viaggi nel Marocco rurale con uno studio fotografico mobile. «Leila passava molto tempo con le persone che finiva per fotografare», racconta la madre. «Trovava un posto per dormire in ogni villaggio, faceva amicizia soprattutto con le donne, andava al mercato con loro, cucinavano insieme. Viveva con loro diversi giorni, e da lì nascevano l’intimità e la fiducia che rendono quei ritratti unici». Dietro alla macchina fotografica, oltretutto, c’era un’antropologa sui generis, in grado di padroneggiare anche le tecniche della fotografia di moda: «A New York, Leila aveva fatto gavetta come assistente per i Milk Studios di Chelsea, dove lavoravano tutti i grandi fotografi di moda. È lì che ha imparato a usare in quel modo le luci e i flash che ha usato per “Les Marocains”».

Ma questo era in un certo senso il passato di Leila Alaoui: il suo futuro lo si vede in “Crossings”, che è di un’intensità davvero rara. «Penso che volesse andare sempre più verso il video e il cinema, la fotografia non le bastava più», conferma Christine. In “Crossings”, lo schermo diviso in nove quadranti alterna foto e video, ritratti di migranti e filmati della superficie dell’oceano o di rami di alberi dei boschi di Tangeri, montati in modo da costruire dei frattali. Binari, onde, dettagli del corpo umano diventano immagini ipnotiche, tagliate e ricostruite in modo da richiamare le figure astratte tipiche della tradizione islamica.

Il sonoro è un collage di voci che raccontano - con il tono fermo del testimone, e senza il lamento della vittima - dettagli del viaggio: i pericoli legati alla cattiveria degli uomini più che alla natura, più che alle incognite del deserto e dell’acqua. Immagini e racconti usurati dalla cronaca riprendono così significato perché diventano arte. E oggi parlano con la stessa dignità e senza patetismo sia dei migranti che compaiono nel video che dell’artista, invisibile dietro alla telecamera e in sala di montaggio.

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