Un vizio di famiglia, capoclan in un nido di vipere (con troppi colpi di scena)

La protagonista si annuncia al padre mai conosciuto. E le altre donne cospirano contro di lui. Ma il regista si fa prendere un po’ la mano

Sembra un giallo alla Agatha Christie ma siamo in Costa Azzurra e precisamente a Porquerolles, ridente isoletta a poche miglia da Hyères. Sembra anche una storia di donne in rivolta, ma le signore forse non sono migliori del capoclan contro cui cospirano. Per finire - sorpresa - “Un vizio di famiglia” (già “L’origine du mal”) è un film autobiografico: la telefonata con cui il personaggio di Laure Calamy si annuncia al padre mai conosciuto riproduce infatti quella con cui la madre del regista, piccolo borghese di banlieue e donna di sinistra, scoprì a ormai 60 anni il suo vero padre, ricco banchiere di destra. A cui da quel giorno dedicò un’imbarazzante venerazione.

 

Il resto è pura, sfrenata, trionfale fantasia. Dalla villa sfarzosa e delirante in cui vive l’anziano e malandato Serge (Jacques Weber), al coro di arpie che lo circonda. La moglie leopardata, accumulatrice compulsiva (Dominque Blanc); l’occhiuta, inflessibile governante (Véronique Ruggia Saura); la figlia ambiziosa che non vede l’ora di impadronirsi del capitale di famiglia (Doria Tillier); la secondogenita scapestrata (Céleste Brunnquell) che con quella telecamera sempre accesa è un’evidente portavoce del regista.

 

Anche se il centro di tutto è lei, la soave, trepidante, deliziosa Laure Calamy, occhioni sognanti e sorriso da vittima in cerca di riscossa. Riuscirà la timida Stéphane (il capofamiglia ha imposto alle figlie nomi maschili) a conquistare quel padre ricco e malato che tanti anni prima abbandonò sua madre? Sopravvivrà il suo faccino innocente alle trappole di quel nido di vipere? O per esser più concreti: i quattrini del padre le consentiranno di abbandonare la sua vita da operaia addetta a inscatolare sardine?

 

Avrete capito che Marnier, già regista dell’altrettanto seducente e insoddisfacente “L’ultima ora”, ama (fin troppo) i sapori forti. E a furia di colpi di scena e invenzioni di regia (tra cui un beffardo “split screen”), si fa prendere un po’ la mano, sacrificando la finezza e la coerenza delle sue invenzioni migliori. Su tutte quella carcerata innamoratissima della protagonista (la sempre sorprendente Suzanne Clément, attrice-feticcio di Xavier Dolan), ostaggio di un copione che a tratti guarda ai suoi personaggi con il loro stesso cinismo. Una leggerezza che Chabrol, modello evidente di Marnier, non avrebbe mai commesso.

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