«Il velo che protegge è l’istruzione»: è un messaggio chiaro quello della tavola rotonda che aprirà il 900fest, il festival di storia del Novecento che si terrà a Forlì da mercoledì 25 a sabato 28 ottobre. Lo organizza la Fondazione Alfred Lewin, nata nel 2002 per ricordare la figura di questo giovane ebreo tedesco socialista che aveva cercato riparo in Italia e morì fucilato da nazisti e fascisti a pochi giorni dalla Liberazione: scopo dell’associazione è «ricordare cosa fu la shoà, lottare contro il razzismo e ogni tipo di discriminazione, tener vivi gli ideali di giustizia sociale e libertà, di democrazia, di cooperativismo e mutualismo, di cosmopolitismo…».
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Per questa decima edizione del festival, il tema intorno a cui concentrare le linee-guida dell’associazione è la scuola, in particolare su temi di attualità anche politica come «uguaglianza, merito, competenze, tradizioni e buone pratiche». Interverranno, tra gli altri, Giuliana Sgrena, Cinzia Sciuto, Tommaso Codignola, Claudio Giunta, Adolfo Scotto di Luzio, Anna Maria Ajello e Wlodek Goldkorn. Per chiudere, un omaggio a don Lorenzo Milani nel centenario della nascita: lo spettacolo “Cammelli a Barbiana. Don Lorenzo Milani e la sua scuola”, di e con Luigi D’Elia.
Tra gli ospiti della tavola rotonda inaugurale, che vedrà insieme esperti italiani e testimoni provenienti da vari paesi arabo-islamici, c’è la tunisina Bochra Bel Haj Hmida: avvocata e attivista per i diritti civili, ex deputata, è stata recentemente costretta ad andare in esilio per evitare di essere arrestata. L’abbiamo intervistata sull’importanza dell’istruzione per le donne nei Paesi arabi, ma anche sui rapporti tra mondo arabo e occidentale, e sulla decolonizzazione dei programmi scolastici.
L’istruzione è sempre importante, e in ogni Paese è sotto attacco, soprattutto nella scuola pubblica. Qual è la situazione in Tunisia?
«Da qualche anno le cose stanno peggiorando. All’inizio, subito dopo l’indipendenza, c’è stato un grande lavoro perché le ragazze andassero a scuola. Era importante per lo Stato ma anche per le famiglie. Nel corso degli anni però l’istruzione pubblica è peggiorata, sia per i contenuti che per i mezzi che ha a disposizione. Da una ventina d’anni le famiglie non mandano più i figli alla scuola pubblica, se possono preferiscono le scuole private. Ma questo è uno svantaggio per le ragazze, perché nel momento in cui devono fare dei sacrifici per affrontare la spesa di far studiare i figli, le famiglie concentrano gli sforzi sui maschi. E anche se l’istruzione è gratuita e, in teoria, obbligatoria, molte ragazze smettono di studiare troppo presto».
In Europa fino a qualche decina di anni fa l'istruzione femminile comprendeva la cosiddetta “economia domestica”, in pratica la preparazione al matrimonio e alla gestione della casa più che al proseguimento degli studi all’università. Nel mondo arabo è così?
«Quello che vedo in Tunisia è che l’istruzione tecnica è molto diversa tra ragazzi e ragazze. E questo porta a un problema di mancanza di manodopera. Le ragazze vengono avviate a diventare parrucchiere o sarte o gioielliere, e ci sono fin troppe giovani donne specializzate in questo mentre mancano elettricisti o meccanici. È forte l’idea che alcuni settori siano riservati ai maschi, e questo ha delle ricadute pesanti sul mondo del lavoro»..
Un problema esclusivamente femminile è quello dell’abbigliamento a scuola. Per parlare di un problema evidente anche nei Paesi europei, qual è l’atteggiamento giusto della scuola rispetto al velo islamico?
«Bisogna riuscire a risvegliare una presa di coscienza da parte delle ragazze, perché possano fare una scelta libera, e non perché si sentono obbligate dalla società, o per un mimetismo che le fa sentire protette. In Tunisia il velo viene chiamato “cache misére”, cioè serve a nascondere la povertà ma anche i complessi: non è insomma sempre un’imposizione religiosa da parte delle famiglie, anche se la religione è sempre un’ottima scusa per imporre qualcosa, soprattutto quando si tratta di controllare il corpo della donna. Certo c’è molto lavoro da fare. Ma in Tunisia abbiamo visto che se le insegnanti parlano apertamente con le ragazze, spesso loro finiscono per togliere il velo. E comunque il problema non è solo il velo».
Di cos'altro si tratta?
«Il dialogo tra allieve e insegnanti serve a dare alle ragazze una migliore percezione del proprio corpo, ad accettarsi come sono. Di certo i divieti non sono utili, e anzi sono controproducenti: si è visto che quando lo si vieta le ragazze tendono a sfidare la società, a sentirsi obbligate a una solidarietà di gruppo, e a usarlo di più. Il controllo del corpo delle donne non è un problema solo arabo, ma da noi è più grave perché si usa la religione. Il cambiamento non riguarda solo la scuola ma la società: l’istruzione pubblica deve contribuire a creare un ambiente in cui se non porti il velo non vieni guardata male. Istruzione e dialogo possono portare le ragazze a sentire che il corpo appartiene solo a loro, non è un tabù, non è qualcosa da coprire o nascondere. Del resto è quello che è successo alla mia generazione: subito dopo l’indipendenza, noi abbiamo avuto la fortuna di avere delle insegnanti che si sono prese il compito di parlarci del nostro corpo, del rapporto con noi stesse e con le nostre famiglie. È compito della scuola insegnare alle ragazze a sentirsi libere riguardo al loro corpo. E non è certo la repressione la strada giusta per raggiungere questo risultato».
A proposito dell’indipendenza dalla Francia, come sono oggi i programmi scolastici? C’è stato un problema di decolonizzazione, di limatura del punto di vista occidentale?
«Negli anni Novanta c’è stata una riscrittura dei libri di testo ma era dedicata soprattutto alla revisione del rapporto tra uomo e donna. Anche l’uso della lingua francese è stato messo in discussione, e ha lasciato molto più spazio all’arabo. Ora però rispetto alla decolonizzazione il problema è cambiato, e non solo nei programmi scolastici: da parte dei giovani c’è un rifiuto dell’Occidente che noi non abbiamo conosciuto. Le nuove generazioni rimproverano a noi di essere stati troppo accondiscendenti verso l’Occidente. Anche qui la scuola ha un grande lavoro da fare. Perché è certo che i paesi occidentali hanno colonizzato la Tunisia e altri, ma è anche vero che questo non deve portare a un rifiuto totale: malgrado tutto possiamo condividere dei valori con l’Occidente.
«Noi pensavamo di aver risolto il problema una volta per tutte, instaurando relazioni amichevoli con l’Occidente, e invece oggi i giovani ci rimproverano proprio questo: di aver liquidato in fretta l’eredità coloniale. Ci sono diversi giovani amici che mi dicono che siamo stati troppo compiacenti. È un tema non facile ma proprio per questo bisogna discuterne apertamente, per far capire ai giovani come ci sentivamo noi. Certo la congiuntura internazionale al momento non favorisce discussioni di questo genere, né nei paesi arabi né in Europa: anche l’ascesa dell’estrema destra non aiuta. Ma spero che con un dibattito sincero si possa arrivare a riconoscere i valori comuni su cui si basa un rapporto sano con l’Occidente. Costruendo così una lettura meno emotiva della nostra storia: di quella del passato ma soprattutto di quella del futuro».