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Cultura
ottobre, 2023

Siamo tuti schiavi della dittatura dei meme

Batman e Robin
Batman e Robin

Non c’è campo che non si traduca in meme: costume, società, sport, politica, business. Il problema fondamentale è la riduzione di tutto a meme, petulante, pervasivo, declinato, incatenato, immolato all’intrattenimento. Terribile

Caro meme stesso mio... Adesso che basta un meme a sintetizzare qualsiasi situazione è tempo di approfondire la questione di una forma e di un linguaggio che pare annettersi ogni tipologia di comunicazione e di espressione. Non c’è campo, ambito, frammento che non si traduca in meme. Costume, società, sport, politica, business si contraddistinguono, sempre più, per un meme. Procedono a colpi di meme. Si fanno forza dei meme. Di tutto ciò che accade nel mondo e del suo contrario, il problema fondamentale è la sua riduzione a meme, petulante, pervasivo, declinato, incatenato, immolato all’intrattenimento. Terribile, temibile più della volonterosa complicità e della finta allegria.

 

Da rileggere, di corsa, “I commentari sulla società dello spettacolo” di Guy Debord, per accorgersi sino a che punto si sia pianta la categoria dello “spettacolare”. In questo caso, “disintegrato”, sotto la spinta della suggestione continua si snoda in una indefessa opera di visualizzazione succedanea alla satira e all’umorismo. Due assi strategici della condizione comunicativa contemporanea. Il meme si presta all’ermeneutica sopra le righe, dalla pesca del recente spot dell’Esselunga sino al Batman che schiaffeggia Robin con il corollario di evitabilissimi slogan e sentenze.

 

Will Smith che schiaffeggia Chris Rock agli Academy Awards

 

Storicamente il termine è di origine anglosassone e, come quasi tutti gli altri adottati dai social, all’origine significava qualcos’altro di profondamente differente. Il primo a utilizzarlo è stato il biologo Richard Dawkins, ne “Il gene egoista” (1976), per definire una caratteristica culturale in grado di propagarsi sotto forma di gene. La molla decisiva è l’imitazione unita alla memorizzazione visiva. In realtà, il meme rappresenta una delle forme di manipolazione più efficace nell’era dei media digitali. Non fatevi ingannare dalla docile demenza, da immagini e frasi ridanciane, poiché siamo di fronte a una pura forma che è ben più di un contenuto o prodotto mediale, in cui la cornice conta più del soggetto o del tema. Non più delimitatile alla viralità dei processi digitali, ma ordine preciso dell’immaginario, al cui interno, si reinventano meme, come individuato da Alessandro Lolli nel saggio “La guerra dei meme”. Nemmeno troppo maliziosamente, consapevolmente o inconsapevolmente, tutti quanti partecipiamo al lavoro di manipolazione, nemmeno troppo pacioccone, condividendo, facendo circolare meme. Gli esiti, come si addice al postmoderno, si rivelano imprevedibili. Le regole, invece, si confermano ferree e consistono nella disintegrazione di ogni categoria del pensiero nell’accostamento in grado di suggestionare.

 

Oramai, ineludibile la liofilizzazione di un pensiero, idea, paradigma (con la minuscola) tramite e per mezzo di un meme. La ricerca di un “meme comune” equivale alla pietra filosofale della scienza alchemica, al Paradiso in terra delle utopie rivoluzionarie, quasi si trattasse di una sussunzione di ogni meta e ideale. Il merchandising al posto delle strutture profonde dell’immaginazione sociale. A nulla vale la misantropia, la sprezzatura, la ricerca pervicace della solitudine. Prima o poi, riceviamo un meme ferale. Non intendo sproloquiare sulla storia della digitalizzazione, tuttavia, la voglia di mettersi in pausa, soprattutto, di fare il più possibile a meno dei meme sarebbe un discreto salto di qualità, tale da far affiorare la voglia di affrancare il pensiero da questa riduzione continua. Anzi meglio, prendendo spunto dal ritorno al privato, cioè, dalla negazione della smania, ansia, di postare, taggare, fare dirette, usare gif e meme, per sentirsi vivi. Magari ci porterebbe lontanissimo. Oppure no. Non è facile, in tempi di vertiginosa e incessante iperconnessione che costringe a una sorveglianza, quasi di tipo militare, dei propri profili.

 

Al di là, delle ingenuità, frivolezze, talvolta ignoranze vere, in senso tecnico e tecnologico sulla natura dei social. Il meme risponde a una prassi che, oramai, appare, quasi del tutto, fuori controllo. Tale da provocare dei profondi cortocircuiti culturali e comunicativi. Disconnettersi significa ri-traslocare fra le quattro mura ciò che è, consapevolmente o inconsapevolmente, sotto gli occhi di tutti e a portata di like. Dall’album di famiglia con le foto più significative a sere in casa sul divano davanti al televisore dove, magari, le serie televisive ritornino ad essere telefilm e, sognare non costa nulla, sceneggiati televisivi. Non tanto in termini di fuga, ma come consapevolezza di non volersi più gettare continuamente nella performance. Per essere accettati, ammirati/detestati, sollecitando il traffico algoritmico. La sospensione di un attimo è un dono potente e reciproco in cui non dannarsi più l’anima per ottenere like sui like. Operazione di sganciamento da quell’intricatissima sovrapposizione ed enfatizzazione fra contenuti personali e professionali, rispetto ai quali non ci raccapezziamo più. Uscendone storditi da una perenne girandola di messaggi, notifiche, aggiornamenti in tempo reale che, nel loro insieme, attestano come l’intrattenimento da social sia un lavoro logorante e ansiogeno d’influencer e content creator.

 

Difficile, allora, limitarsi alla mera constatazione del meme, come variegata sintassi pop, cioè, effetto speciale spicciolo. Viceversa, dopo decenni, alla luce dell’accelerazione imposta ad un fenomeno che non è più semplicemente comunicativo, il meme si è tramutato in logica precisa, mediante la quale interagire nei social, ormai, ridotti a deposito o vetrina digitalizzata. Il potenziale descrittivo e semantico è surrogato dalla suggestione fine a se stessa. Escamotage per distrarsi durante le ore di lavoro, pretesto per due risate (forzatissime) durante l’aperitivo. Non a caso, l’utilizzo immediato si è avuto nel marketing e nella politica, grazie alla capacità di diffondere idee, atteggiamenti, stili di vita, mentalità. Divertenti più che interessanti. Di sottocultura in sottocultura. “Moriremo di meme”? Fate girare. Se vi pare.

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