Sono talmente tante le copie vendute di “The dark side of the moon” che anche un semplice calcolo statistico indica quanto segue: non c’è un momento in cui non ci sia qualcuno da qualche parte nel mondo che stia ascoltando il disco. Uscì esattamente cinquant’anni fa e non ha mai smesso di uscire, potremmo dire, con continue riedizioni che rinnovano e confermano la incredibile longevità dell’opera dei Pink Floyd, la più amata, la più consumata, la più intoccabile. Per tutti, tranne che Roger Waters. Ci sono tanti modi di festeggiare un’opera ma lui ha scelto quello più strano: rifarla, risuonarla, ricantarla, come se ce ne fosse bisogno.
La sua nuova versione uscirà l’8 di ottobre ma alcuni pezzi sono già in circolazione e ci danno una buona idea dello spirito con cui Waters ha voluto rileggere il più osannato dei dischi rock, definito spesso il disco perfetto per la sua poetica simmetria, per la bellezza impareggiabile dei suoni, per la complessità e l’audacia della costruzione, per aver dato un’idea di opera totalmente nuova e coerente con la rivoluzione estetica portata dal rock, e così via, tutti motivi che avrebbero convinto chiunque avesse scritto e realizzato un tale prodigio a non toccarlo mai più.
E invece lui lo ha fatto, sono già usciti un paio dei maggiori caposaldi del disco ovvero “Time” e “Money”, quest’ultima addirittura parlata, versioni più pacate, ridotte, declamate, minimaliste, ma la vera ragione per un progetto del genere rimane sfuggente e le sue spiegazioni, ovvero riproporre per riattualizzare il messaggio, sono ancora più incomprensibili alla luce dell’ascolto.
La nuova versione è semplicemente più brutta dell’originale, e non poteva essere diversamente, ma soprattutto, eliminando gli assolo di chitarra e per forza di cose la voce del rivale Gilmour, sembra più che altro una “damnatio memoriae” ovvero il risultato del folle desiderio di poter ripubblicare una “sua” dark side, cancellando la presenza dei suoi ex compagni di band.