Ai piedi della statua bianca del condottiero a cavallo e dei fregi di marmo e gesso, l’Aula Colleoni dell’Accademia di Belle Arti risplende di colori. Guizzi di viola, rosso e giallo nel grande “Venetian Red” di Samia Halaby, pittrice ottantaseienne ancora attivissima. Verde e giallo sui vestiti della raccoglitrice di sale di Mohamed Khalil, una rappresentazione della fatica del lavoro manuale di una potenza che richiama i primi quadri di van Gogh. I colori della bandiera nei dettagli dei "Palestinian Portraits" di Jacqueline Bejani. E tutte le sfumature del verde negli ulivi delle pacifiche colline di “In pursuit of Utopia #7” di Nabil Anani. Sono solo alcuni dei protagonisti di “From Palestine with Art”: una selezione di opere del Palestine Museum di Woodbridge (Connecticut). Passata per Venezia durante la recente Biennale, la mostra è a Roma fino al 24 febbraio in una esposizione sostenuta dell’associazione MedArtandCultures, nata per favorire il dialogo e gli scambi culturali tra i popoli del Mediterraneo.
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Sono cinque anni che Faisal Saleh, dopo una vita in affari tra software ed editoria, ha fondato il museo «per raccontare al pubblico la storia della Palestina attraverso l’arte», spiega. Gli artisti scelti per questa antologia non sono i più famosi: «Siamo stati criticati per questo, ma abbiamo cercato rappresentanti di caratteristiche diverse: uomini e donne, anzi più donne che uomini. Artisti che vivono in Palestina o in tutto il mondo, dal Canada all’Australia. Che usano tecniche più diverse, dipinti, fotografie, scultura e installazioni. E hanno età che variano dai 24 agli 86 anni». Pochi sono i quadri astratti, a smentire ancora una volta il presunto tabù della cultura islamica contro la figura umana: «Tradizionalmente l’arte islamica non è figurativa ma geometrica, calligrafica. Il divieto era valido nel passato ma oggi è accettato solo da una frangia di persone, e da alcuni paesi che sono islamici ma non arabi, come l’Afghanistan: certo non in Palestina», spiega.
Nabil Anani, "In pursuit of Utopia #7"
Saleh vuole parlare d’arte, non di politica, «perché l’arte parla al cuore, la politica ad altre parti del corpo. Molte persone hanno nella testa filtri che non lasciano passare nulla che riguardi la politica, ma l’arte riesce a passare». Nelle sue parole però tornano tutti i punti più critici del rapporto tra i due popoli che abitano quel territorio. La «Nakba, la tragedia del 1948», quando la nascita dello Stato di Israele significò l’abbandono delle proprie case e il trasferimento in campi profughi per migliaia di palestinesi, tra i quali la famiglia di Saleh, e «l’evidente regime di apartheid» imposto negli anni recenti. Anche solo parlare della causa palestinese diventa sempre più difficile a causa dell’approvazione in vari paesi del mondo di leggi che arrivano a vietare, come forma di antisemitismo, ogni critica al governo israeliano: «Ogni volta che uno degli Stati americani approva una legge di questo genere noi facciamo causa perché leggi come queste sono contro il Primo Emendamento, che garantisce la libertà di parola: ma ci vuole impegno, e tempo, e denaro», commenta Saleh.
Samia Halaby, "Venetian Red", particolare
Meglio occuparsi d’arte: «A Venezia, allo European Cultural Center, abbiamo avuto una risposta entusiasta, abbiamo riempito nove volumi di firme di visitatori in quaranta lingue diverse». E dopo Roma l’esposizione potrebbe spostarsi in altre città: «Siamo pronti ad accettare inviti», spiega il direttore. Il messaggio affidato ai quadri in fondo è molto semplice. Saleh lo esprime chiaramente quando gli si chiede cos’hanno in comune queste opere, cosa differenza l’arte palestinese da quella di altri Paesi: «Assolutamente niente. Che vivano a Gaza, a Ramallah, a Gerusalemme o nel resto del mondo, gli artisti palestinesi sono artisti come tutti gli altri. Siamo esseri umani esattamente come voi: per questo anche noi meritiamo il rispetto dei diritti umani».