Il primo acciaio a impatto zero è made in Italy. Dopo un anno di test di laboratorio andati a buon fine, nei prossimi quattro mesi la I-Smelt, società spin-off di un team di ricercatori del Politecnico di Milano, costruirà in Lombardia il primo forno industriale per produrre acciaio senza l’uso di carbone fossile e senza rilasciare anidride carbonica. L’impianto sarà ultimato a giugno e i successivi tre mesi serviranno a confermare se, su larga scala, i consumi energetici e la produttività sono proprio quelli ottenuti durante le prove. «Poi, a settembre, comincerà la commercializzazione. Siamo pronti», promette Carlo Mapelli, creatore di I-Smelt, professore di Ingegneria dei materiali al Politecnico di Milano, già membro del cda all’ex Ilva e oggi nel board di Finarvedi. L’Espresso vi racconta cosa c’è dietro questa rivoluzione copernicana, che promette di stravolgere la siderurgia italiana attualmente in grado di fatturare 47 miliardi l’anno, dare lavoro a 35mila persone e produrre 23 milioni di tonnellate l'anno di materiale.
Ma andiamo con ordine. Da tempo è scattata la corsa all’acciaio a impatto zero per evitare che l’aumento della produzione mondiale - si stima più del 30 per cento nei prossimi vent’anni - non soffochi il già sofferente pianeta: infatti il sei per cento delle emissioni globali di CO2, cioè quattro miliardi di tonnellate, proviene dai cicli siderurgici, che oggi sfornano due miliardi di tonnellate di acciaio l’anno. Per pulirsi la coscienza i produttori hanno promesso di dimezzare le emissioni al 2050, ma finora i progressi stanno al palo. Il Mit di Boston, fra i più quotati centri di ricerca al mondo, ha messo a punto la tecnologia Moe, testata alla Boston Metal, che punta a fondere il minerale di ferro per elettrolisi: il progetto è stato finanziato con 600milioni di dollari, sganciati da Bill Gates e dal gigante franco-indiano Arcelor Mittal.
L’entusiasmo iniziale ha lasciato il posto alla perplessità quando è stato necessario costruire un reattore nucleare per far funzionare l’impianto, che a quanto pare è fin troppo energivoro: qualcuno sta cominciando a pensare che sostituire il problema dell’anidride carbonica con quello delle scorie radioattive non sia esattamente una brillante idea. Anche l’acciaieria svedese Ssab mira a produrre acciaio da minerale, sostituendo il metano con l’idrogeno: la reazione consentirebbe di sprigionare nell’atmosfera vapore acqueo anziché anidride carbonica. Tuttavia l’unico procedimento in grado di creare idrogeno è l’elettrolisi che consuma un sacco di energia e ancora più acqua: se si volesse alimentare l’ex Ilva di Taranto a idrogeno bisognerebbe far fuori un quarto delle riserve idriche del Sud Italia e un terzo di quelle del Centro Italia, più un’area grande 5.600 campi da calcio per i pannelli fotovoltaici. In attesa che la ricerca sull’idrogeno faccia passi avanti, la tecnologia che più si avvicina al Sacro Graal dell’acciaio verde è proprio I-Smelt.
L’idea di fondo, racconta Carlo Mapelli a L’Espresso, è sostituire il carbon fossile con il biocarbone, un materiale ottenuto in ambiente inerte dagli scarti della potatura degli alberi, da legname a fine vita e da fanghi di natura organica: «Il risultato del processo è il carbonio puro che, fatto reagire con il minerale di ferro all’interno di un innovativo forno elettrico preriduttore, produce la lega metallica a base di ferro, cioè acciaio. Alimentando l’impianto a biogas ed energia elettrica rinnovabile da pannelli fotovoltaici è possibile neutralizzare le emissioni nette di CO2 che, provenendo da fonti vegetali ed animali, non viene conteggiata perché l’ecosistema la riassorbe stagionalmente», spiega il professore.
Le novità di questa tecnologia sono svariate: innanzitutto il processo di smelting (fusione della roccia per estrarre il metallo) avviene a temperature più basse rispetto alla media - 1.400 gradi, anziché 1.600 -, inoltre è realizzabile in piccoli impianti che, quindi, non hanno bisogno di gigantesche quantità di energia.
Per capire come mai l’impatto di questa tecnologia potrebbe essere dirompente soprattutto per l’Italia e l’Europa è necessario spiegare come oggi avviene la produzione della lega metallica.
Prima di tutto, ci sono due tipi d’acciaio, primario e da rottame. Il primario, più puro, viene prodotto scaldando minerale e bruciando carbone negli altiforni. L’ex Ilva, oggi controllata dallo Stato al 60 per cento, la restante quota da Arcelor Mittal, nonostante tutti i problemi ambientali, continua a essere l’unico produttore di acciaio da minerale d’Italia, fondamentale per l’industria metalmeccanica che lo usa per fare scocche delle auto, elettrodomestici, carpenteria, impianti, flange e così via. Prima che la magistratura tarantina aprisse un’inchiesta giudiziaria decennale per danno ambientale, l’Ilva sfornava 10-12 milioni di tonnellate di acciaio l’anno, mentre oggi ne offre al mercato tre e mezzo. Sopperisce a questa carenza l’acciaio da rottame: sostanzialmente si raccoglie il metallo a fine vita e lo si rifonde. Il problema è che il rottame è merce rara e all’appello mancano fra le sei e le dieci milioni di tonnellate per rispondere alla domanda delle industrie.
La soluzione potrebbe essere I-Smelt, che permetterebbe ai siderurgici del Nord Italia di realizzare acciaio primario da minerale e ossidi di ferro, a bassi costi e senza inquinare. Oltre alla cinese Shaghang Group, interessatissima al nuovo processo, hanno manifestato interesse moltissimi nomi noti dell’acciaio, dalla bresciana Feralpi alle Acciaierie Venete, dalla veronese Nlmk all’emiliana Atb Riva Calzoni, dalla mantovana Marcegaglia alla cremonese Arvedi. Tutte attendono i risultati del primo impianto pilota, anche se Mapelli assicura: «Nonostante sia stato dimostrato solo in laboratorio, lo smelting è di immediata trasferibilità industriale».
La società più interessata di tutte è sicuramente la Dri d’Italia, cioè l’impresa pubblica controllata dallo Stato attraverso Invitalia che si sta occupando della transizione ecologica dell’ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia. Il processo di smelting, se da un lato potrebbe risolvere il dilemma della città di Taranto, costretta a scegliere fra il lavoro che uccide (attraverso i fumi dell’altoforno), e la salute che non paga, perché comporta la chiusura dello stabilimento, dall’altro lato ridimensionerebbe il ruolo di Taranto perché, come abbiamo detto, anche i siderurgici del Nord Italia potrebbero iniziare a produrre acciaio primario sfruttando l’innovativo processo.
A oggi la Dri punta a sostituire la produzione di acciaio da altoforno con il preriduttore, un macchinario particolare per ottenere acciaio da minerale di base, con un investimento complessivo di 1,2 miliardi, di cui 400 milioni solo per la realizzazione dei forni a preridotto (minerale in lingotti pronti per essere lavorati).
Al contrario, spiega Mapelli, «per soddisfare la produzione dell’intero mercato italiano attraverso la tecnologia I-Smelt il costo degli impianti chiavi in mano è di circa 100 milioni di euro. Addirittura, affiancando l’impianto a un piano di riforestazione (funzionale alla produzione di biocarbone, che viene dalla potatura degli alberi) è possibile ottenere crediti di carbonio, utili a finanziare l’investimento iniziale». Anche Ilva, insomma, osserva da vicino il progetto smelting che, sulla carta, ha un costo di produzione di 300 euro a tonnellata, la metà del preridotto. Più nello specifico la Dri sta iniziando a dubitare della sostenibilità economica del preriduttore che, basandosi su un massiccio uso di gas naturale, ha subito un’impennata dei prezzi. Per ovviare a questo problema i produttori di preridotto hanno cominciato a utilizzare materie prima di scarsa qualità, danneggiando quindi gli impianti. A Invitalia, insomma, i conti non tornano e tutto questo sta bloccando il piano di trasformazione dell’ex Ilva.
A livello societario la I-Smelt è stata incubata per un anno all’interno di Elsafra II, una holding finanziaria controllata da Silvio Rancati, ex banchiere oggi sviluppatore di start up ideate dai ricercatori del Politecnico di Milano. Dopo la fase di brevettazione, in autunno la società ha preso le sembianze di una srl e, due settimane fa, ha portato a termine un aumento del capitale sociale: da 10 a 145 mila euro. Quel denaro servirà per dare il via all’industrializzazione.
Azionisti di maggioranza restano Carlo Mapelli ed Elsafra II, affiancati da alcuni siderurgici, come Gianluca Marconi, manager del gruppo Eusider, e Romano Pezzotti, presidente della bergamasca Fersovere e commerciante di rottame. Proprio Pezzotti vuole contribuire allo sviluppo del primo impianto e investire nella produzione del preridotto smelt, che si basa sulla tecnologia brevettata, del valore di 65 milioni di euro. E nelle prossime settimane altri player del siderurgico potrebbero farsi avanti per scommettere sull’acciaio verde.