Nuove relazioni
Maschio alfa addio, è l’ora degli uomini sentimentali
Cinema, moda, letteratura, spettacolo raccontano il tramonto del modello tradizionale. Una rivoluzione silenziosa che svela un’emotività più complessa. E più libera
Non è un brutto segno che la pagina Instagram che ironizza sui «maschi etero basic» sia tanto seguita (@eterobasiche, oltre 200mila follwer): dimostrando che la specie è ancora tra noi, dà però la misura di una larga, lucida, spiritosa coscienza critica. E autocritica. Il tramonto dell’«etero basic», se così vogliamo definirlo, con la sua prevedibile perché un po’ schematica rozzezza (interessi standard, linguaggio e desideri convenzionali), non è un fatto recente. Costume, moda, nuove abitudini mentali hanno da tempo fatto vacillare il monolitico e a ogni modo ridicolo maschio alfa, costringendolo – se non a una resa incondizionata – a cedere il passo a esseri umani per cui l’aggettivo “virile” è di per sé fuori asse.
Non basta: perché l’enfasi mediatica sul politico che piange in pubblico, sulla star che si mostra vulnerabile (Fedez o Marco Mengoni, mettiamo), sull’anti-paternalista conferma che la rivoluzione non è ancora compiuta. Tanto meno nel campo della paternità: dove ancora si tende a rilevare come straordinario, quando non eccentrico, il padre partecipe, presente. Con il rischio che lo si inquadri – insopportabilmente – come “mammo”.
L’editoria, sul tema, insiste e spesso sbaglia: lasciando per l’appunto che i neopapà nati in coda al ’900 si compiacciano del loro stesso scoprirsi tali. Producendo una melassa retorica sulle gioie di un giorno-per-giorno con neonato o infante che non ha niente di davvero eccezionale. Per fortuna.
Non che la questione sia improduttiva in termini letterari – a patto, però, che a scriverne siano scrittori veri: è il caso dell’argentino Andrés Neuman (1977) che, nelle pagine di “Ombelicale” (Einaudi), sembra muovere proprio da un risveglio tardivo alla coscienza, a una consapevolezza emotiva più ampia, stratificata, complessa: «Spero – dice rivolgendosi al figlio – mi insegnerai a piangere le cose che non ho mai pianto». Curiosa, ma forse nemmeno troppo, la ricorrente evocazione dei dotti lacrimali in tali contesti: quasi che al pianto adulto il maschio contemporaneo assegni ancora un valore di rivelazione, di esposizione radicale, di liberazione.
«Scrivo di ogni cosa che mi ha fatto piangere»: chiude il suo “Tasmania” (Einaudi) Paolo Giordano, ed è la frase a cui approda l’io narrante-alter ego dopo avere messo alla prova sé stesso, le proprie certezze, dopo averle viste ondeggiare nel privato tanto quanto nell’orizzonte collettivo. Non sono lacrime da eroi greci, né da supereroi coi poteri scaduti: ma brillano come sintomi di una messa in gioco di sé più integrale, indifesa. Perfino in camera da letto: vedi certe pagine sincere e ansiose di Giordano, quarantenne “in trouble” come nel titolo originale della miniserie tv Disney “Fleishman a pezzi”. Con un’aria da nipote di Woody Allen un po’ meno ironico, Jesse Eisenberg interpreta il padre difettoso e in affanno di due bambini. Separato, ossessionato dalle app di dating e perciò dal sesso, si accorge a un certo punto di non riuscire nemmeno a masturbarsi: ed è lì che perdendo pezzi – benché da privilegiato – può inoltrarsi in una affollata solitudine che gli permette di vedere e di vedersi in modo nuovo.
Ancora: di riconoscere e perciò sfidare i propri limiti. Soprattutto emotivi: accade, in un clima molto diverso, anche in “Aftersun”, film diretto dalla trentacinquenne Charlotte Wells e candidato all’Oscar. Un padre giovane (Paul Mescal) in vacanza con una figlia undicenne prova a fare pace con l’idea di non essere ancora cresciuto. Peggio: sente che sta affondando. Un’onda di malinconia e di tristezza quasi insostenibile avvolge lo spettatore, a cui via via risulta chiaro come quel ragazzo “spezzato” non avesse la forza sufficiente per resistere agli urti del mondo. Inadeguato? Incompleto?
Ma chi ha stabilito i parametri dell’adeguatezza, della vita “compiuta”? Sembrano chiederselo i personaggi di “Cieli in fiamme” (Mondadori), il romanzo in cui Mattia Insolia dimostra che l’incompiuto non è una dimensione anagrafica. Che si può restarlo a lungo o per sempre, e non si tratta di rinvio delle responsabilità, ma di una misteriosa e bruciante paura. Insolia – ha scritto Crocifisso Dentello – rende coetanei genitori e figli, ed è esattamente ciò che per altre vie accade in “Aftersun”, e ancora diversamente nel film più autobiografico di Steven Spielberg, “The Fabelmans”, sopralluogo emotivo di un ex bambino nella giovinezza sconosciuta dei propri genitori. Piena, naturalmente, di ombre: ma nessuno deve perdonare nessuno, in fondo, basta il coraggio di non nascondersi la verità. E di raccontarsela e raccontarla: con lo slancio, l’afflato di chi non teme, quando occorre, di essere “sentimentale”.
“El hombre sentimental” diceva il titolo di un vecchio romanzo di Javier Marías: anche se forse il tenore protagonista non è ancora e fino in fondo in grado di riconoscersi tale. Combatte per certi versi con la sua natura, mentre si impelaga in una ossessione amorosa più astratta che reale. Presagita o ricordata.
In ogni caso, totalizzante: come quella del bellissimo “L’amore inutile” (Wojtek), romanzo candidato al premio Strega da Valeria Parrella. «La sua teoria era che le emozioni vivevano una loro esistenza, avevano un’anima privata»: Gianfranco Di Fiore mette in scena la dolente e quasi indicibile sconfitta emotiva di un uomo che, letteralmente, vive una storia d’amore giocata solo sulla voce. La voce, le voci al telefono. Disordine e dolore precoce, una tragedia calma, ma anche una cruda estensione di quell’amour de loin, l’amore da lontano che è alle origini delle letterature romanze.
Come un trovatore disincantato o disperato, Di Fiore lavora sul sentimento ideale/virtuale come il rovescio contemporaneo di quei sospiri, come il segno di una solitudine lacerante. La «nuda verità», proprio quella: matrice di uno scrivere d’amore per mano maschile che dà in questi mesi esiti non convenzionali. Detto diversamente: l’impudente silenziosa rivoluzione di “uomini sentimentali” che scrivono d’amore. Massimiliano Virgilio nel romanzo “Il tempo delle stelle” (Rizzoli) svela il rovescio dei sentimenti di «una coppia solida, affettuosa e progressista». E offre al suo personaggio maschile l’occasione per evitare di diventare la versione crudele e oscena di sé stesso. Il sorprendente, elegiaco Dario Voltolini di “Giardino degli Aranci” (La Nave di Teseo), o il Marco Drago di “Innamorato” (Bollati Boringhieri): una sorta di poema in prosa sull’ossessione per una ragazza incontrata nel cuore dell’adolescenza e mai uscita dai pensieri. Drago la sogna e la risogna, la ricorda, la immagina e immaginandola quasi la consuma: ma parlando di lei e di certi luminosi interminabili pomeriggi degli anni Ottanta parla di sé, di come si diventava e si diventa – bene o male – maschi; di come si allenava la lingua dei desideri e meno, molto meno quella dei sentimenti. Che magari si apprende da adulti, diventando scrittori. È una questione di stile, no?
Lo dimostra, al polo opposto del romanzo di Drago, Giacomo Sartori col suo “Fisica delle separazioni” (Exòrma). Se l’uomo sentimentale di Marías vive nell’incompiuto, l’uomo sentimentale di Sartori fa i conti con ciò che al contrario sembrava avere trovato la sua solidità, la sua perfezione. Quando finisce una storia d’amore, cosa si fa per dimenticarla? Sartori propone “otto movimenti”, un training sofisticatissimo, malinconico-ironico, che è anche e soprattutto una scommessa sulla prosa della memoria, anzi dell’anti-memoria: «Va dimenticato tutto, per fare una cosa ben fatta bisogna dimenticare tutto». È un libro affascinante, spietato senza essere livido: i giorni dell’abbandono, una volta tanto, visti e vissuti da lui. Uno che non si libera del nodo in gola, conosce le sue colpe e i suoi errori, sa che è difficile capire chi lascia chi e fatica a darsi pace: intanto si scopre debole, indifeso, e anche se sembra il contrario è già una conquista. Letteraria, sì. E umana.