14 professioniste hanno scritto una proposta di legge per regolamentare gli ambienti dedicati alla maternità. E creato la pagina Instagram #ancheame per raccogliere e divulgare le storie di chi ha dovuto subire soprusi durante il parto

«Ti hanno raccontato centinaia di volte che nell’esatto momento cui avresti preso tuo figlio in braccio saresti diventata una mamma perfetta. Così quando dopo il parto ti guardi intorno senza sapere cosa fare, ti senti inadeguata e in colpa perché pensi che sia un problema solo tuo. Ma non è così: la violenza ostetrica dipende anche dalla narrazione falsa e iper-performativa della maternità», spiega Valentina Melis, attrice, femminista, tra le fondatrici di #ancheame, un manifesto che denuncia la sistematicità di trattamenti irrispettosi, abusivi o negligenti subiti dalle donne durante il parto. E che punta a offrire gli strumenti per riconoscere gli abusi, per allargare una rappresentazione della maternità che sempre più persone definiscono stretta.

 

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Come emerge anche dalle testimonianze che hanno riempito la pagina Instagram #ancheame, sono molteplici le forme di violenza che le donne dicono di aver vissuto: «La ginecologa ha eseguito lo scollamento delle membrane senza chiedere il mio parere, anzi proprio senza parlare con me in tutta la visita. Mette i guanti, tasta, scolla, tira fuori le dita, rimuove il guanto insanguinato, esce dalla stanza», scrive un’utente. Altre raccontano di come si sono sentite sbagliate per aver chiesto, stremate da ore di travaglio, di riposare dopo il parto. Del senso di malessere percepito durante le visite per l’interruzione di gravidanza a causa dell’indifferenza del personale. Molte hanno spiegato di essersi sentite stigmatizzate o colpevolizzate.

 

«Mi è stata praticata l’episiotomia senza che mi venisse comunicato. Posso capire che fosse necessario ma nessuno me l’ha detto e spiegato il perché», commenta una neomamma. Un’altra dice: «Ho partorito dopo due notti senza chiudere occhio. Ero stanchissima e il mio bimbo non voleva dormire. Terrorizzata perché temevo di addormentarmi allattando, chiedo aiuto all’ostetrica che mi risponde: “È normale che voglia stare tutta la notte attaccato a te, non posso farci nulla io, allattalo”. «La cosa che mi fa più rabbia - scrive una donna dopo aver raccontato di essersi sentita trattata a pesci in faccia durante il parto - è che non avevo nessuna preparazione. Avevo mille nozioni in testa che dipingevano un mondo infiocchettato che non aveva nulla a che fare con la maternità che ho affrontato nella realtà».

 

«Sono migliaia le persone che hanno subito pratiche lesive della propria dignità, sia fisica sia psicologica, in ospedale», chiarisce Francesca Bubba, attivista per la maternità. «Nella maggior parte dei casi le violenze restano nel silenzio. Per vergogna o perché mancano gli strumenti per riconoscere gli abusi. Oppure perché alcune sono convinte che siano la normalità. Non lo sono», Bubba è la fondatrice del team di #ancheame che sta elaborando anche una proposta di legge per istituzionalizzare il contrasto alla violenza ostetrica, «per regolamentare gli ambienti dedicati alla maternità, alla genitorialità e alla salute intima. Io e altre 13 professioniste abbiamo sentito un’urgenza dentro, come un bruciore, dopo i recenti casi di cronaca. Ci siamo riunite, per una settimana non abbiamo fatto altro che scrivere la bozza del testo. Con l’obiettivo di promuovere un cambiamento culturale». A supporto della proposta di legge il team sta avviando anche un’indagine statistica: «Perché vorremmo definire l’ampiezza del fenomeno. Per contrastare una forma di violenza così deplorevole e sfaccettata che è difficile da intercettare».

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