Le lotte intersezionali si sono diffuse anche in Italia, ma nel lungo viaggio dai campi di battaglia statunitensi sembra che il concetto di intersezionalità abbia perso il suo carattere politico originario, diventando una mera etichetta di inclusività.
Aziende e circoli di sinistra hanno abbracciato questa parola come una bandiera, ma l'attenzione alla diversità e all'inclusione rimane limitata a uno scaffale particolare. Premiazioni e riconoscimenti celebrano coloro che lottano per un Paese migliore, ma le categorie principali, come giornalismo, politica ed economia, rimangono prevalentemente bianche, a meno che non rientrino nella categoria «della diversità e inclusione».
Anche l’inclusione sa di separatismo e linee parallele. Questa compartizzazione, che limita le identità delle persone razzializzate all’interno di recinti definiti, è il riflesso della società in cui si inseriscono e il fulcro della difficoltà a comprendere la molteplicità delle difficoltà che affrontano. E anche luoghi di lotta come il Pride possono trasformarsi in una versione glitterata di un immaginario desolante.
Piazze e palchi candeggiati di bianco che urlano intersezionalità, ma in cui i discorsi sulle politiche migratorie anche pertinenti (come il tentativo della destra di eliminare l’orientamento sessuale e l’identità di genere tra i motivi di protezione umanitaria) fanno fatica a penetrare.
Diventa essenziale allora esaminare criticamente come le discussioni sulla diversità e sull'inclusione possano diventare distrazioni, se non vengono affrontate le strutture oppressive e inequitative che sottostanno ai sistemi. È fondamentale sfidare lo status quo, smantellare pratiche discriminatorie per affrontare le cause profonde dell'ineguaglianza. Solo così si può creare una società più equa per tutte le comunità marginalizzate.