Niger, Mali, Burkina Faso: in sempre più Paesi non si accetta che lo sviluppo debba essere deciso unilateralmente dagli Stati occidentali. E il "neo-sovranismo" subsahariano riguarda anche il progetto del governo

Un Piano Mattei per l’Africa. O forse, si vedrà, con l’Africa. L’annuncio di Giorgia Meloni di fronte a una platea di capi di Stato e di governo, magari con qualche indizio in più sui contenuti della sua iniziativa, è previsto a Roma il 28 e 29 gennaio. L’occasione sarà la Conferenza Italia-Africa, un appuntamento già fissato per il novembre scorso ma rinviato poi con la motivazione della guerra in Medio Oriente. Il nome di Enrico Mattei, l’ex partigiano fondatore dell’Eni che guardò a Sud del Mediterraneo per sfidare il monopolio delle “sette sorelle” del petrolio, è comunque nero su bianco in un decreto legge. Che affida la regia del Piano alla presidenza del Consiglio senza prefigurare contributi specifici di esperti subsahariani.

 

Secondo Mario Giro, esponente della Comunità di Sant’Egidio ed ex viceministro degli Esteri conoscitore dell’Africa, con l’iniziativa «l’Italia punterebbe a entrare in settori imprenditoriali comprando parti di proprietà o avviando joint venture con imprese del continente». Stando a questa analisi, confermata da alcune dichiarazioni di Meloni, «il 70 per cento del Piano sarà realizzato grazie alle risorse del Fondo per il Clima, circa tre miliardi, e ci saranno poi 700 o 800 milioni del fondo rotativo, vale a dire crediti di aiuto gestiti da Cassa Depositi e Prestiti e dalla Cooperazione». Si tratterebbe a ogni modo di “soft loan” a tasso agevolato e non di dono, sottolinea Giro. Un’opzione confermata a L’Espresso anche da altre fonti, concordi sul fatto che «la proposta ruoterà comunque attorno agli approvvigionamenti energetici», in omaggio a Mattei e per lo stop all’import di gas russo deciso con la guerra in Ucraina.

 

Sul punto riflette Otto Bitjoka, camerunense e lombardo, in dialogo con Matteo Salvini, soprattutto filosofo e pensatore libero. Già ospite di un summit Russia-Africa in riva al Mar Nero, sul Piano Mattei promette «una lettura disincantata e afro-centrista». Il suo assunto è che a stabilire cosa convenga e a chi non possano essere solo il governo italiano e i suoi alleati internazionali. «Gli africani non sono bambini», dice. «Sanno pensare e sanno decidere; persino scegliersi gli amici, che non devono essere per forza gli stessi dell’Occidente». Laureato alla Cattolica in Scienze economiche e bancarie, impegnato nel sociale, Bitjoka è presidente della onlus Unione delle comunità africane d’Italia (Ucai). In questo ruolo, nell’ultimo anno ha coordinato un confronto con intellettuali subsahariani su «identità, differenze e culture politiche in dialogo» che è stato supportato dal ministero degli Esteri. Ora preannuncia per febbraio un convegno su “Esegesi della fenomenologia del pensiero di Enrico Mattei”. E ascoltatelo sul “neo-sovranismo popolare”: quello che starebbe cambiando l’Africa ancora prima che arrivi il Piano italiano. «Le giunte militari che hanno preso il potere in Burkina Faso, Niger e Mali stanno conquistando i cuori e le menti», sottolinea. «La gente non ne può più delle promesse occidentali su democrazia e lotta contro il terrorismo, perché non hanno portato a nulla».

 

Offrono spunti cronache in arrivo dal Mali. L’esercito ha ripreso il controllo di Kidal, una città del Nord a lungo base di gruppi armati di matrice tuareg. «I francesi volevano dividere il Mali in due, il presidente Nicolas Sarkozy lo aveva proprio detto», accusa Bitjoka. «Per dieci anni i militari non si sono potuti avvicinare a Kidal perché Parigi lo impediva e ora finalmente hanno ripreso la città». E la bandiera del gruppo Wagner che ha sventolato sul forte? «I russi non sono i primi a fornire i servizi di gruppi paramilitari», risponde Bitjoka, rievocando le uccisioni di civili in Iraq da parte dei contractor di Blackwater: «Gli americani lo hanno già fatto, e tengo fuori dal conto la Legione Straniera della Francia». Non regge la tesi dei buoni e dei cattivi. «Prima l’Europa capirà che l’Africa ha il diritto di sbagliare con le proprie idee», scandisce Bitjoka, «e meglio sarà».

 

Il punto è che l’agenda dei Paesi Ue, proprio come quella cinese o russa, non coincide con quella africana. Prendete ancora il Mali, che è ricco di litio, un minerale strategico per le batterie delle auto elettriche. La giunta del colonnello Assimi Goïta ha approvato una riforma per portare ad almeno il 30 per cento le partecipazioni statali nei progetti estrattivi. Il più importante è quello di Goulamina, dato in concessione prima del golpe del 2020 all’australiana Leo Lithium Limited insieme con la cinese Ganfeng Lithium. «Il Mali sta attraversando una fase storica di cambiamento strategico», spiega a L’Espresso Abdoulaye Diarra, direttore a Bamako dell’Organisation pour le Bien Etre Solidaire (Obes), una ong impegnata nel sociale. «Speriamo che le nuove scelte si rivelino giuste».

 

In realtà ogni caso è a sé. Per dire: in Niger, settimo esportatore mondiale di uranio, il gruppo francese Orano sta continuando a estrarre nonostante il ritiro dei militari di Parigi. Fa intanto parlare di sé Ibrahim Traoré, 35 anni, un altro capitano salito al potere con un colpo di Stato. In Burkina Faso ha cambiato nome a un viale intitolato a Charles De Gaulle: d’ora in poi sarà “Boulevard Thomas Sankara” in omaggio al “Che Guevara africano”, un militare golpista divenuto presidente anti-imperialista. Dal suo assassinio sono trascorsi 35 anni. E sono cambiate anche le parole: chiamateli sovranismi o magari solo tentativi di opporsi allo strapotere dei mercati. Gli africani però, Mattei lo sapeva, non sono bambini.