Scenari
La guerra che verrà: quei Paesi dove il conflitto è ormai a un passo
L’Esequiba pretesa da Maduro. Il Nagorno-Karabakh e l’Ossezia nel Caucaso. Le isole Curili, il Kashmir, il Tibet. Sono tanti i casi di rivendicazioni opposte dove è concreto il rischio di nuovi conflitti armati
Manca, almeno per ora, la guerra con i carri armati e le bombe. Ma è sempre più aggressivo il dittatore di turno che minaccia un intervento armato. La Guyana Esequiba come il Donbass. È una “striscia” dal Pacifico all’Amazzonia di 195 mila chilometri quadrati (più della metà dell’Italia), metà dell’unico Paese sudamericano di lingue inglese, la Guyana appunto – colonia britannica fino al 1966 – confinante con il Venezuela, che vuole annetterselo. Se in Ucraina l’aggressore si chiama Vladimir Putin, qui risponde al nome di Nicolas Maduro: hanno in comune il pugno di ferro e l’assenza dal loro vocabolario dei diritti umani, con l’inevitabile lunga storia di sanzioni occidentali. Anche il Donbass e l’Esequiba hanno molto in comune: sono entrambi ricchi di materie prime (petrolio, oro, terre rare), il che spiega gli appetiti dei vicini. Di fronte alla costa della Guyana, la Exxon sta sfruttando un maxi-giacimento petrolifero: Maduro ha dato alla compagnia americana tre mesi per cambiare in direzione Caracas la destinazione delle royalties visto il risultato del referendum-farsa del 3 dicembre (come ha fatto Putin in Donbass) sull’anschluss dell’Esequiba. Gli Stati Uniti, che hanno un conto aperto con il Venezuela dai tempi di Hugo Chavez, sono sul chi vive. «Paradossalmente – spiega Tiziano Breda, ricercatore dello Iai – proprio in queste settimane si stava sperimentando una sospensione delle sanzioni con il tentativo di riammettere il Venezuela nella comunità internazionale. Va da sé che con questa minaccia, compresa quella militare, si rischia di tornare al punto di partenza». In attesa della pronuncia della Corte Internazionale di Giustizia sulla questione, che pare abbastanza scontata, i due presidenti, Maduro e Irfaan Ali, si sono incontrati il 15 dicembre all’aeroporto di Kingston, capitale di Saint Vincent and the Grenadine. «Ma ognuno – dice Breda – è rimasto sulle sue posizioni e si sono solo promessi di non farsi la guerra. Visto il curriculum di Maduro (che ha fatto arrestare, torturare e uccidere centinaia di oppositori causando la fuga dal Paese di sette milioni di abitanti, ndr) in pochi si fidano».
Di sfide al calor bianco su territori contesi è punteggiato l’atlante. Spesso l’opzione per risolvere la questione è quella delle armi, modello Putin. Ne sanno qualcosa gli armeni dell’enclave del Nagorno-Karabakh in Azerbaijan, alla quale dopo anni di lotte era stata nel 2020 attribuita autonomia amministrativa (aveva costituito la “Repubblica di Artsakh” peraltro non riconosciuta dall’Onu): il 19 settembre scorso, dopo un blocco militare di diversi mesi, le truppe azere hanno preso possesso manu militari della regione. L’Artsakh si è dissolta, con il capo Ruben Vardanyan arrestato dalle autorità di Baku e centomila armeni costretti a fuggire attraverso 77 chilometri di tortuosa strada di montagna per raggiungere la madrepatria. Ilham Aliyev, autocratico presidente dell’Azerbaijan (secondo fornitore di gas all’Italia), assicura aiuti umanitari al governo di Erevan, capitale dell’Armenia, dove però si è visto finora solo lo sconforto nei volti dei profughi.
Trecento chilometri a Nord, sempre nel Caucaso, ribolle un altro conflitto etnico-economico. Per l’Ossezia del Sud, enclave reclamata dalla Russia nel territorio della Georgia, si è combattuto fin dalla fine dell’Urss del 29 dicembre 1991. Anni di scontri armati, culminati con un conflitto a tutto campo fra Mosca e Tbilisi nel 2008, con tanto di battaglie aeree sulla costa georgiana del Mar Nero e 200 mila profughi dalle aree di combattimento. «La mediazione di Nicolas Sarkozy portò a un fragile cessate il fuoco il 12 agosto di quell’anno», spiega il super esperto di geopolitica Stefano Silvestri. «Da allora l’Ossezia del Sud è sotto occupazione militare russa, ma il fuoco cova sotto la cenere, e identico scenario per l’altra regione georgiana dell’Abkhazia a Nord del Paese». Sono terre di aspre montagne, dal sottosuolo ricco di risorse energetiche e minerarie, e per di più di transito strategico fra la Russia e il Mar Nero.
Mosca è impegnata anche sul fronte orientale. La disputa sulle isole Curili, una ghirlanda fra la penisola russa di Kamchatka e l’isola giapponese di Hokkaido, risale alla fine della seconda guerra mondiale, quando la Russia considerò bottino di guerra le isole storicamente nipponiche, ed è tuttora irrisolta. Tokyo, ora che il trauma della guerra è lontano, reclama la restituzione delle isole. Anche la comunità internazionale si è convinta che i russi, che amministrano l’arcipelago, dovrebbero restituirlo ai vecchi “proprietari”. C’entra perfino il cambiamento climatico: il Giappone, ora che gli inverni sono meno rigidi, vorrebbe trasferire un po’ della sua sovrabbondante popolazione sulle isole di cui chiede che gli sia riconosciuta la sovranità. Le annose trattative erano a buon punto quando la Russia ha invaso l’Ucraina e il Giappone si è schierato con l’Occidente. Il 7 giugno 2022 il Cremlino ha azzerato l’accordo del 1998 che permetteva ai pescatori giapponesi di navigare nell’arcipelago (peraltro nel 2006 il cercatore di granchi Mitsuhiro Morita fu ucciso da una nave di pattuglia russa). Nel marzo 2023, per marcare il territorio, i russi hanno installato un sistema di difesa costiero Bastion sull’isola di Paramushir, una delle Curili. Allora Joe Biden ha ordinato agli americani nati nelle isole di indicare come Paese d’origine sul passaporto il Giappone e non più la Russia. Guerra di logoramento.
Anche Cina e India tengono gli eserciti in allerta: combatterono una guerra breve ma feroce nel 1962 per definire il confine del Tibet, disegnato dal delegato britannico Henry McMahon nel lontano 1937 e mai accettato da nessuna delle due parti. La guerra fu vinta da Pechino, che oggi amministra il Tibet: manca la parte meridionale, l’Arunachal Pradesh ben noto agli scalatori (i cinesi lo chiamano Zangnan, che significa Tibet del Sud): è rimasto all’India ma la Cina lo reclama con crescente assertività. New Delhi ha ammassato truppe e squadroni d’aeronautica nel vicino Stato dell’Assam a scopo dimostrativo, altrettanto la Cina. La tensione è altissima.
L’India è anche impegnata sul confine occidentale nella disputa con il Pakistan per il Kashmir, cominciata all’indomani dell’indipendenza nel 1947 e sfociata in tre guerre (1965, 1971 e 1999) e ripetute scaramucce armate che proseguono tuttora. Il Kashmir compete per due terzi all’India e per un terzo al Pakistan, ma nessuno dei due Paesi accetta la partizione in una disputa complicata dalla rivalità fra hindu e musulmani.
Non c’è bisogno di uscire dall’Europa per ricordarsi che Cipro è divisa da un muro alzato dopo l’invasione armata turca della metà settentrionale nel 1974, con la creazione di Cipro Nord, abitato in effetti per lo più da turchi ma riconosciuto solo da Ankara. A differenza degli altri, è un caso di “terra irredenta” come Trieste nella prima guerra mondiale: un’area che culturalmente, religiosamente e linguisticamente appartiene a un altro Paese e aspira a farne parte. Però, vallo a spiegare al governo di Nicosia.