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Esteri
ottobre, 2024

Un nuovo ordine scritto con il sangue

Prima del 7 ottobre 2023, Israele cercava di far dimenticare al mondo la questione palestinese. Cancellando un popolo. Un anno dopo, Netanyahu vuole continuare la guerra. Per poter sopravvivere politicamente. Mentre il conto delle vittime s’impenna

Un anno di guerra brutale ha trasformato la Striscia di Gaza in un irriconoscibile mare di macerie e in un cimitero per decine di migliaia di persone, tra cui troppi bambini». Lo ha scritto Philippe Lazzarini, il capo dell’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino Oriente. Secondo le ultime stime, basate sulle cifre fornite dal ministero della Salute di Gaza, 41.909 palestinesi sono stati uccisi e 97.303 feriti dalle forze armate israeliane durante gli ultimi 12 mesi nella Striscia. Dei morti, 16.756 sono bambini e 11.346 donne. In altri termini, il 69 per cento del raccapricciante bollettino delle vittime di Gaza è composto da donne e bambini. Per chi è ancora vivo «Gaza è diventata un luogo quasi inabitabile», dato che almeno 2,1 milioni di persone, ovvero il 96 per cento della popolazione palestinese della Striscia censita prima del 7 ottobre 2023, stanno affrontando alti livelli di insicurezza alimentare. Inoltre, un palestinese su cinque (ovvero 495 mila persone) rischia di morire di fame secondo la Classificazione della fase di sicurezza alimentare integrata (Ipc) dell’ufficio stampa di Hamas.

E mentre in molte città israeliane si tenevano manifestazioni per la liberazione degli ostaggi ancora in mano ad Hamas – 64 secondo le stime più ottimistiche, intorno ai 50 secondo altri – il premier Benjamin Netanyahu annunciava: «Stiamo cambiando la realtà della sicurezza nella nostra regione per il bene del nostro futuro, per garantire che ciò che è accaduto il 7 ottobre non si ripeta mai più». Ma la nuova realtà che il primo ministro vuole costruire, lo ha annunciato lui stesso, è fatta di un Libano senza Hezbollah, di un Iran senza ayatollah, di un Medio Oriente pacificato sotto l’ombrello del cosiddetto Patto di Abramo, che nel nome degli Stati Uniti e degli scambi commerciali ha portato allo stesso tavolo Israele e alcuni Paesi arabi, dal Marocco all’Arabia Saudita. Il progetto, in realtà, era già quasi riuscito prima del 7 ottobre. Quasi due decadi di governo del Likud, il partito dell’attuale capo dell’esecutivo, e di progressivo sbilanciamento verso destra della politica di Tel Aviv erano quasi riusciti a far dimenticare al mondo la «questione palestinese». Oggi il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan dice che «Israele la pagherà per ciò che ha fatto a Gaza», l’ayatollah Ali Khamenei annuncia l’ineluttabile «fine del sionismo», l’Arabia Saudita, il Qatar, il ministro degli Esteri giordano, il mondo musulmano si schierano con i civili palestinesi massacrati, ma solo a parole. La verità è che quasi tutti, a eccezione di Teheran, avevano già accettato la nuova realtà costruita su una mappa senza Palestina. Gaza come «prigione più grande del mondo», come la definisce lo scrittore israeliano dissidente Ilan Pappé, e la Cisgiordania integrata pienamente nel territorio israeliano. Nel totale disinteresse e disprezzo delle risoluzioni Onu che definiscono le colonie ebraiche «illegali» e che intimano ai coloni «di smantellare subito gli insediamenti e ritirarsi» nei territori assegnati a Tel Aviv nel 1967.

Eppure questo piano quasi perfetto per cancellare dalle carte geografiche un popolo è saltato il 7 ottobre con gli attacchi di Hamas. L’ultimo dato condiviso sui morti causati dalla tremenda incursione dei miliziani palestinesi nel recinto del festival musicale “Nova” nei pressi del kibbutz di Re’im e degli altri kibbutz è di 1.139, in quella che è stata una vera e propria mattanza organizzata chissà da quanto e passata del tutto inosservata ai potentissimi mezzi dei servizi di intelligence dello Stato ebraico. Nelle stesse ore Hamas ha rapito circa 250 persone, trascinandole nei sotterranei nella Striscia. Questi ostaggi sono diventati il simbolo di una crisi, come i morti ammazzati a Gaza (e per molti in misura maggiore di questi). Il loro rilascio ha occupato tutte le trattative che si sono faticosamente trascinate per mesi tra i rappresentanti di Israele e di Hamas, mentre i mediatori di Usa, Qatar ed Egitto lasciavano trapelare di volta in volta indiscrezioni che sembravano aprire piccoli spiragli di speranza. Puntualmente disattesi dai fatti. L’ultima proposta della Casa Bianca, datata 2 luglio, si è arenata prima dell’escalation in Libano a causa della richiesta israeliana di mantenere il controllo sui corridoi Filadelfia (confine Gaza-Egitto) e Netzarim (che taglia la Striscia da Est a Ovest intorno a Gaza City). Netanyahu aveva definito il mantenimento del loro controllo «di vitale importanza» per la sicurezza di Israele. Ma poco dopo Yoav Gallant, ministro della Difesa e membro del Gabinetto di guerra, e gli ex capi dell’esercito israeliano Benny Gantz e Gadi Eisenkot (ora leader del partito d’opposizione di Unità nazionale) lo avevano smentito, dichiarando che, «se fosse necessario, potremmo riprendere il controllo del corridoio Filadelfia in otto ore».

Ma il Gabinetto di guerra israeliano non sente ragioni. Ancora Pappé ha dichiarato a inizio settembre che «la strategia principale di Netanyahu è quella di continuare la guerra perché ritiene che sia l’unico modo per assicurare la sua sopravvivenza politica». Le foto delle piazze israeliane dicono che una parte significativa della popolazione non vuole che ciò accada, rivuole i suoi cari a casa e chiede di poter ricominciare a vivere una vita normale. Ma non è questo il piano dei vertici che ora guidano Israele. Hanno deciso che il nuovo ordine del Medio Oriente si costruirà con il sangue e sul sangue. Che sia quello delle migliaia di bambini trucidati dalle bombe di Gaza o delle decine di ostaggi ancora nella Striscia poco importa.

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