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Una vigilia di gaffe, insulti e allibratori

Negli Stati in bilico si giocano le chance di successo. Decisivo potrebbe essere l’elettorato femminile che però Harris non ha coltivato. Bookmaker per Trump

Se il mantra “follow the money” dovesse rivelarsi ancora una volta corretto, tra qualche giorno il repubblicano Donald Trump potrebbe avere la vittoria in tasca. Nonostante queste siano considerate le elezioni più incerte della storia, con i sondaggi che danno i due candidati testa a testa a livello nazionale come negli Stati in bilico, i bookmaker scommettono sul leader Maga. Star Sports, tra gli altri, ha rivelato a Newsweek che addirittura il 95% delle puntate è a favore dell’ex presidente, mentre solo il 5% dà alla democratica Kamala Harris fiducia nell’impresa.

Ovviamente, l’andamento delle scommesse non è un indicatore scientifico di cosa accadrà il 5 novembre. Eppure, se dovessimo continuare a “seguire i soldi”, a far rumore sarebbe il silenzio di alcuni grandi imprenditori – uno su tutti, il miliardario Warren Buffett – che hanno deciso di non esporsi in questa campagna elettorale proprio per paura che a vincere possa essere il repubblicano. Ad esclusione di Elon Musk, patron di Tesla, X e SpaceX, che sta appoggiando attivamente la corsa di Trump, anche i grandi della Silicon Valley, ad esempio, hanno preferito rimanere neutrali per non mettere a rischio la salute delle aziende. È in questa chiave che va letta la scelta del Washington Post, proprietà di Jeff Bezos, e del Los Angeles Times, comprato da Patrick Soon-Shiong, di rompere con la tradizione evitando un endorsement ufficiale ad uno dei due candidati. Sanno bene che se dovesse tornare alla Casa Bianca «la lista dei nemici» da punire sarebbe il primo dossier sulla scrivania dello Studio Ovale.

Inizia a prender piede l’idea che Harris avrebbe più probabilità di vincere il voto popolare, mentre Trump il controverso sistema del collegio elettorale. Insomma, in casa dem si paventa un triste remake del 2016, quando Hillary Clintonperse, nonostante avesse raccolto più voti.

Nelle stanze del potere della capitale l’umore è cupo. Fremono i potentati del partito, ma il chiacchiericcio dilaga anche nella seconda fila, tra lo staff. Il vento sembra non soffiare più in poppa. A pochi giorni dal momento della verità, c’è già chi comincia a fare i conti, a sviscerare cosa e perché è andato storto. Nonostante l’investimento di oltre un miliardo di dollari (il doppio di quelli impiegati dai repubblicani negli ultimi tre mesi). Di certo si è lentamente spento il fuoco sacro del “momentum” di Harris, acceso dopo la rinuncia di Biden a luglio. C’è chi imputa alla vicepresidente di essere stata irretita dalle maglie della sinistra radicale, chi non le perdona di non aver fatto abbastanza – nelle sue funzioni di luogotenente – per fermare la tragedia umanitaria di Gaza, chi ancora lamenta i contorni troppo sfumati del programma elettorale e le giravolte politiche. Lei, però, la «guerriera gioiosa», continua a sfoderare sorrisi inscalfibili. In fondo i malumori blu potrebbero essere solo scaramantici, come prematura potrebbe essere la sicumera smargiassa in cui si trastulla il popolo Maga. E difatti il Nostradamus della politica statunitense, lo storico dell’American University Allan Lichtman, è certo che tra qualche giorno gli americani consacreranno la prima presidente. Il professore si è sbagliato una sola volta dal 1984.

Nulla è ancora scritto, sia ben chiaro. Kamala Harris e Donald Trump hanno ad oggi le stesse probabilità. Resta l’incognita della “silent majority”, la voce sommessa ma determinante dell’americano medio (teorizzata negli anni Settanta di Richard Nixon), quello che non va ai comizi e neppure attacca adesivi promozionali all’auto, ma che nel silenzio dell’urna sceglie senza indugio la strada più conservatrice. L’imprenditore newyorkese si è sempre vantato di parlare la lingua della maggioranza silenziosa dei cittadini dimenticati dall’establishment. Ma negli Stati Uniti del 2024 la composizione di questo gruppo di elettori potrebbe cambiare. Lo ha ipotizzato, tra gli altri, Barbara Comstock, ex deputata Gop della Virginia, secondo cui stavolta ad agire potrebbe essere il gruppo silenzioso delle elettrici bipartisan che voterà per difendere aborto e i diritti riproduttivi.

Lasciate da parte le paure dei finanziatori, il sentore degli esperti e la scaramanzia dei supporter, i due candidati stanno sfruttando ogni secondo prima del suono della campana, combattendo energicamente negli Stati in bilico – soprattutto in Pennsylvania, Michigan e Wisconsin – con uno, due comizi al giorno. Anche se milioni di americani hanno già espresso la loro preferenza, sfruttando la possibilità del voto anticipato di persona e per posta, le sorprese in grado di influenzare le urne possono ancora accadere. Basta guardare quello che avrebbe dovuto essere il momento più alto della campagna repubblicana, con Trump all'arringa finale nella sua New York. Difficile pensare che i pochi indecisi rimasti, semmai abbiano visto il comizio, risolvano il dilemma dopo aver assistito alla marea di insulti razzisti e sessisti, usciti dalla bocca dell’ex presidente e dei suoi ospiti. Tra i più ripresi, l’intervento di un comico che ha definito il Portorico «un’isola di spazzatura galleggiante». Ed è proprio per sottolineare questo aspetto del Gop che Kamala Harris negli ultimi giorni ha levato la maschera “buonista” concentrata solo sulla gioia, per attaccare direttamente Trump, definendolo un «fascista», un pericolo per la democrazia. Non a caso, infatti, ha deciso di consegnare le argomentazioni finali a Washington DC con un comizio all'Ellisse, il luogo preciso dove il leader Maga parlò il 6 gennaio 2021, poco prima dell’assalto al Congresso.

È concreto il timore di scontri e proteste. Nessuno si sente di escluderli, soprattutto se a perdere dovesse essere Donald Trump che da quattro anni alimenta la madre di tutti i complotti: le elezioni rubate. I repubblicani hanno già schierato avvocati specializzati e addestrato scrutatori addetti a garantire la correttezza del voto. Resta vivo il ricordo dei disordini di quattro anni fa. In memoria, sulla spianata dei monumenti della capitale nei giorni scorsi è spuntata un’installazione ironica che celebra il “sacrificio” e l’“eredità” degli “eroi” dell’aggressione definiti dal loro leader "patrioti". Si intitola "The Resolute desk" e raffigura la scrivania di Nancy Pelosi – all’epoca speaker della Camera e principale target dei rivoltosi – imbrattata da una montagna di feci umane che richiama la vicina cupola di Capitol Hill. Il monito, semmai servisse, è chiaro.

«Sono le elezioni più importanti della storia» ha ripetuto fino allo sfinimento la vicepresidente. «Ora che gli è stata garantita l’immunità dalla Corte Suprema, Trump è incontrollabile», più pericoloso del 2016. In questa partita, Harris ha giocato tutte le sue carte, rispondendo a tono alle offese dell’avversario. Ce n’è però una che non ha mai colto, ovvero quella che riguarda il suo essere donna. Per sminuirla, ad esempio, il repubblicano non l’ha mai chiamata per cognome, ma solo per nome, storpiandoglielo. Lei ha preferito non puntare sull’identità di genere, senza rimarcare la portata storica di un’ipotetica vittoria, visto che potrebbe diventare la prima donna “Commander-in-chief” degli Stati Uniti. Un approccio diverso da quello di Hillary Clinton, che usò spesso questo asso. Oggi a ricordare quanto le donne siano in ballo –  e non solo per le questioni relative all’aborto –  ci ha pensato una grande alleata. Nell’ultimo comizio in Michigan, Michelle Obama si è presa tutto il tempo, quasi 40 minuti, per snocciolare quello che è stato definito il suo manifesto femminista. «Un voto per Trump è un voto contro tutte noi».

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