Abbiamo incontrato il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez il 13 maggio 2015, in occasione dell’Assemblea generale della Caritas internationalis “One Human Family, Caring for Creation”, durante la quale è intervenuto sul ruolo che la Caritas deve svolgere nel mondo. Con il gesuita argentino p. Diego Fares - che papa Francesco ha citato come ispiratore della sua recente enciclica “Dilexit nos” - avevamo preso appunti da quella conversazione perché fossero pubblicati. Poi, per vari motivi, non hanno mai visto la luce. Nel 2022 p. Fares è deceduto. All’indomani della scomparsa, il 22 ottobre 2024, di Gustavo Gutiérrez mi pare importante far conoscere questa conversazione. (a.s.)
Che cosa si intende per «opzione preferenziale per i poveri»? È un’opzione teologica o sociologica?
«È teologica! Certamente. L’ha detto anche Bendetto XVI alla Quinta conferenza generale dell'episcopato latinoamericano di Aparecida nel 2007: l’opzione preferenziale per i poveri è teologica. Invece per molti la povertà è solo una questione sociale e di etica sociale. E invece no: è teologica! L’opzione è un impegno, i poveri sono i poveri reali e la preferenza è la preferenza di Dio, cioè quella spirituale. Quando qualcuno dice: la povertà materiale è carenza di beni materiali mentre povertà spirituale è carenza di beni spirituali, mi succede a volte di replicare, scherzando, che è troppo “logico” per essere “biblico”. Non è così: l’opzione preferenziale per i poveri non è per i poveri spirituali. Sono talmente pochi: sarebbe troppo facile! È per i poveri che riempiono il Pianeta. Non esiste una teologia che non sia anche sociale. Se i dati sociologici sono necessari, l’opzione preferenziale per i poveri resta però un’opzione teologica, quella di una teologia allineata alla realtà. Stiamo parlando delle persone abbandonate, la Bibbia non smette di ripeterlo».
Quindi, l’opzione preferenziale per i poveri è un’opzione spirituale che dobbiamo compiere tutti, ricchi e poveri?
«Certamente. Non è una formula per fare in modo che i ricchi facciano qualcosa di buono. Anche il povero deve fare l’opzione. Ricordo una riunione in una comunità cristiana di giovani in cui si parlava delle loro esperienze. Erano stati a lavorare nei quartieri popolari e un ragazzo disse, quasi con superbia: “Io non ho bisogno di fare queste cose, perché sono povero”. E gli ho risposto: “Qui ti sbagli, fratello, ti sbagli di grosso. Anche il povero deve fare l’opzione per i poveri”. Il povero deve scegliere da che parte stare. Ci sono poveri che ne sfruttano altri, a loro favore. A volte chi non ha un contatto diretto con i poveri li idealizza. Bisogna essere realisti».
Ha avuto occasione di parlare della teologia della liberazione con papa Francesco?
«Sì, brevemente. Il Papa è molto arguto. E ascolta! Una boccata d’aria fresca! Evangelico. Ma io prendo le distanze da quelli che vogliono rinchiuderlo dentro una specifica teologia».
Il Papa ha più volte detto ai movimenti popolari che i poveri devono essere protagonisti del loro destino. Cosa ne pensa?
«Sì, devono essere “soggetti”. Va bene per i movimenti popolari essere “voce dei senza voce” nelle situazioni di emergenza, ma non va bene che esistano persone che non abbiano voce per cui altri devono parlare per loro conto. Il povero deve essere soggetto del suo destino: questa è una delle idee fondamentali della teologia della liberazione: il destino del povero deve essere nelle sue mani, come è per qualsiasi essere umano».
Ma non è utopia?
«Spesso si afferma che il regno di Dio è un’utopia, o meglio, che l’utopia cristiana è il regno di Dio. Ma, se si va alle fonti, Tommaso Moro chiamava “utopia” un progetto storico. Con la sua ironia british si è inventato un’isola e ha messo tutto lì. Tuttavia, allo stesso tempo, così ha detto che si poteva realizzare! Il regno di Dio sono valori: pace, gioia, uguaglianza; ma non ci sarà mai un’istituzione o una conquista sociale che s’identifichi col regno di Dio. Questa era la tentazione “politica” del Medioevo. Il punto è che il regno di Dio è un dono, non è un’utopia. E un dono va ricevuto: se non lo accogli, quel dono non conta, non vale. E che cosa devi fare quando ricevi un dono? Rispondere. Si usa, in alcuni ambienti, un interessante gioco di parole in tedesco: Gabe, cioè grazia, e Aufgabe, cioè dovere. Dunque, la vita cristiana è tra Gabe e Aufgabe, tra grazia e dovere, perché ricevi una grazia e hai il dovere di amare l’altro. L’amore di Dio viene per primo. Ha lui l’iniziativa. La questione è: in che modo accetto il dono dell’amore di Dio? Amando un altro. La speranza non è il punto di arrivo di idee astratte».
Viene in mente la parabola del buon samaritano...
«Normalmente noi pensiamo di essere al centro di un cerchio e vogliamo sapere chi è il nostro prossimo, guardandoci attorno. È molto umano. Gesù però capovolge tutto: chi sta al centro del cerchio è il ferito. Il ferito è, dal punto di vista narrativo, il personaggio più importante della parabola del buon samaritano. Nel racconto tutti i personaggi hanno a che fare con lui, e di tutti sappiamo qualcosa grazie a lui: dei briganti, che lo hanno derubato; del levita e del sacerdote, che sono legati al tempio e che gli passano accanto senza aiutarlo. Del samaritano, invece, sappiamo a quale popolo appartiene. Sappiamo qualcosa anche del padrone della locanda dove il samaritano porta l’uomo ferito, che è il centro. L’unica cosa di cui abbiamo bisogno per aiutare qualcuno è che abbia bisogno di noi».
La ferita di cui stiamo parlando ha a che vedere con la croce?
«No. C’è un’idea molto forte su cui sono molto critico: non è la sofferenza di Gesù a salvarci, ma il suo amore. È un amore che accetta la sofferenza, per così dire, come prezzo della sua missione. Se non accettiamo questo, crediamo che i suoi contemporanei fossero attori: sarebbe venuto perché i farisei lo uccidessero. Ma non abbiamo il diritto di “inventare” dei farisei assassini: sono stati atti liberi. Avrebbero potuto non compierli. Avrebbero potuto convertirsi. Perché no? La vita di Gesù non è una piéce teatrale, dove tutti recitano la loro parte: Giuseppe, Maria, gli apostoli, i farisei… Quel mondo sarebbe potuto essere completamente diverso. Non qualsiasi sofferenza è salvifica: a salvare è la sofferenza che si vive per amore. Monsignor Romero, ad esempio: aveva paura che lo ammazzassero, ma in lui non ha vinto la paura solamente perché non voleva abbandonare il suo popolo. Avete letto il Dialogo delle carmelitane di Bernanos? Di quella suora che vuol essere martire? Ma alla fine la martire sarà Blanche, che è quella che ha paura di morire: l’altra non diventa martire. Una cosa davvero acuta da parte di Bernanos, che era un grande cattolico. È un Dostoevskij francese: di quelli che scrivono e hanno un sentimento molto profondo. Insomma, quell’altra poveretta se n’è restata là. Perché il martirio non si può cercare. Voler essere martiri è una canagliata: significa volere che ci sia un assassino. Cito Bernanos perché ho lavorato molto nel campo della letteratura. I romanzi che piacciono a me sono quelli che esprimono “poesia”, che è fondamentale per capire i nostri popoli. La poesia è il miglior linguaggio della teologia».
Un elemento cristiano popolare che diamo nella catechesi è che l’importante è la sofferenza…
«Io lo capisco e lo difendo pure. Di fatto le persone soffrono e vedono Gesù che soffre, e s’identificano con lui. Ma occorre ridimensionare un po’ questo concetto. Non siamo nati per soffrire. Mi pare orribile La passione di Cristo, il film di Mel Gibson, perché sembra che tante più frustate ha ricevuto Gesù, tante più persone si sono salvate. E non è vero. Il Getsemani è chiarissimo: “Allontana da me questo calice”. S’incentra proprio sul “non compiere” la sua volontà, ma quella del Padre. Questa è la vera povertà. Non bisogna esagerare la metafora della sofferenza, perché altrimenti la trasformiamo in qualcosa d’inevitabile».
Riguardo alla sofferenza dei bambini, Papa Francesco ha detto: «È l’unica domanda a cui non ho risposta».
«La sofferenza umana è il mistero più grande. Soprattutto quella dell’innocente. Nella mia parrocchia ho avuto modo di confrontarmi spesso con questo mistero: quando vedevo quei bambini e quelle bambine che sembra nascano già destinati al mattatoio. Ogni giorno di quei venticinque anni in parrocchia mi sono chiesto quale sarebbe stato il loro futuro. Una ragazzina nera un giorno – avrà avuto cinque anni – mi dice: “Io non voglio essere nera”. Quella bambina era ancora molto piccola. Non sapeva di essere povera. Non sapeva che cosa fosse essere poveri. E non sapeva di essere povera dal punto di vista economico. Tutti lì erano poveri. E non sapeva di essere donna. L’avrebbe saputo molto più tardi, che sarebbe stata maltrattata in quanto donna. Cominciava a capire di essere un’emarginata per via del colore della pelle. Perché i bambini sono molto crudeli nelle battute. E lei, ovviamente, si dispiaceva per il suo colore: non capiva bene perché lei fosse nera e noi no. Ma io dicevo: lo capirà, crescerà nella vita e saprà di essere povera dal punto di vista economico e saprà di essere donna. Questo significa entrare nella povertà quasi come sia un destino: è una cosa impressionante, no? Le persone si raccontano tante storie sulla sofferenza… se la spiegano, la giustificano, dicono “la sofferenza fa maturare le persone”. Mah!
Oltre alla sua esperienza pastorale, c’è qualche esperienza personale che le ha fatto maturare questa sensibilità alla sofferenza della sua gente?
«Ho trascorso sei anni a letto perché ho avuto una osteomielite. Erano gli anni Quaranta, c’era la guerra, gli antibiotici non erano stati scoperti. Era appena apparsa la penicillina. Purtroppo tuttora questa malattia esiste, però è più rara e la curano prima. Io sono finito a letto da bambino. Mi sono poi alzato e ho cominciato a camminare a 18 anni. E sono entrato all’università. A quel punto è ovvio che volevo diventare medico: avevo passato la vita in ospedale! Poi ho lasciato perdere e sono entrato in seminario. Ma quell’esperienza e anche i miei primi studi all’Università, mi hanno dato una visione. Ero rimasto confinato a letto per sei anni, per tutta l’adolescenza. E vivevo in quel classico ambiente secondo cui la sofferenza va offerta a Dio. Come ho detto, non ho niente contro questo, ma io ero molto sportivo: riuscivo nel calcio, ma mi piacevano anche l’atletica, il salto in alto in particolare. E poi all’improvviso mi sono trovato a letto. Questo mi ha cambiato la vita, ed è chiaro che è stata proprio dura».