Le cicliche iperboli della politica americana - siamo dinnanzi alle “elezioni più importanti di sempre” - trovano quest’anno razionale giustificazione in una serie di colpi di teatro in piena campagna elettorale. Innanzitutto, il ritiro del democratico Joe Biden con l’entusiasmante entrata in scena di Kamala Harris, prima donna di colore a tentare l’impresa; poi lo sventato assassino del candidato repubblicano Donald Trump, primo condannato a correre per la Casa Bianca. Dopo l’onda blu generata dalla convention e un dibattito impeccabile, la vicepresidente è ora in una posizione di stallo, mentre a dieci giorni dal voto, il candidato repubblicano sembra ritrovare smalto. Ma la corsa è un serrato testa a testa. Si aspetta affluenza record. Milioni di americani non attenderanno il prossimo 5 novembre, hanno già espresso il loro voto in anticipo, sia per posta che di persona.
Come si vota Tranne Mississippi, Alabama e New Hampshire, in forme e date diverse, tutti gli altri Stati offrono la possibilità di votare di persona prima del 5 novembre. Per posta, invece, è garantito in tutta l’Unione, ma in alcuni stati è necessaria una valida ragione. In generale, sono i democratici a ricorrere maggiormente al voto anticipato. Come sa bene Hillary Clinton, non vince chi raccoglie più voti a livello nazionale, ma chi raggiunge la magica soglia di 270 grandi elettori, su 538. Ad ogni stato è assegnato un numero di grandi elettori in base alla popolazione. Il sei gennaio, il Congresso certificherà il risultato delle elezioni, mentre il 20 è previsto il giuramento del presidente e del suo vice e l’insediamento alla Casa Bianca.
Allarme brogli È la “conspiracy theory” più dura a morire, deflagrata nel 2020 con il movimento “Stop the steal” e con il vergognoso assalto al Congresso del 6 gennaio 2021. Molti supporter sono ancora convinti che a vincere le scorse elezioni fu Donald Trump, penalizzato però da brogli (smentiti in ogni sede legale). Il timore che anche quest’anno la base Maga possa non riconoscere il risultato in caso di sconfitta preoccupa Washington.
Chi vince negli Stati in bilico? A decidere l’esito di queste elezioni saranno i grandi elettori dei sette stati indecisi: Arizona (11), Georgia (16), Michigan (15), Nevada (6), Carolina del Nord (16), Pennsylvania (19) e Wisconsin (10). Il gruzzoletto elettorale degli “swing states” consiste in 93 voti del collegio elettorale. È qui che entrambi i candidati stanno investendo energie e ingenti iniezioni di fondi. Spot elettorali, comizi, concerti, porta a porta. Ma anche funzioni religiose, come quella a cui Harris ha partecipato ad Atlanta in Georgia per festeggiare il sessantesimo; e turni a McDonald’s, come quello fatto dall’ex presidente a Feasterville, in Pennsylvania. Negli stati chiave la situazione è in parità, con Trump in leggero vantaggio in Arizona, Georgia, North Carolina e Michigan. È anche in rimonta in Wisconsin, Pennsylvania e Nevada, dove però rimane sopra la democratica di mezzo punto. Questa elezione è uno snervante testa a testa, numeri e percentuali sono tarantolati più che ballerini. Mentre scriviamo, la bibbia millennial dei sondaggi - il sito 538 - dà Donald Trump in vantaggio, 49 a 47. Il margine di errore, però, è ancora altissimo, tant’è che per altri istituti statistici, come Morning Consult, è Harris la favorita, 50 a 46.
Temi chiave Anche quest’anno, l’economia è il tema principe. Nonostante i dati indichino quanto la Bidenomics sia forte, la vicepresidente ha deciso di non rivendicare i successi dell’amministrazione, per focalizzarsi sul futuro. Da subito ha promesso la riduzione dei costi dei generi alimentari, vietando speculazioni, e aiuti per chi compra la prima casa. Vuole aumentare le tasse alle grandi aziende e a chi guadagna più di 400 mila dollari. Lo slogan di Trump è, invece, «rendere l’America di nuovo accessibile». Intende eliminare l’inflazione, abbassare i tassi di interesse e i costi dell’energia. Il suo piano isolazionista prevede inoltre nuove tariffe per i beni che arrivano dall’estero. L’accesso all’aborto è un tema cardine della campagna elettorale della sinistra, che si impegna a far approvare dal Congresso una legge che lo garantisca a livello federale; per il repubblicano la decisione deve essere rimessa agli stati. Mancano la questione di genere e quella specificamente razziale nel taccuino di Harris che preferisce non enfatizzare né l’una né l’altra. L’immigrazione è invece il cavallo di battaglia del repubblicano e il tallone d’Achille della dem. L’ex presidente promette «deportazioni di massa», il ticket avversario un aumento dei controlli alla frontiera. Sul clima, la vicepresidente è passata da una posizione progressita a una più moderata, cambiando idea sul fracking, pratica che non vuole più vietare. Facile per Trump: «Drill, baby, drill!», trivellare. Considera il cambiamento climatico una bufala. In politica estera, invece, assicura di riuscire a metter fine alla guerra in Ucraina già prima dell’insediamento, ma non dice come. Pieno appoggio a Israele in Medio Oriente. Harris, invece, riafferma la centralità della Nato e il supporto a Kiev. Rimarca l’alleanza con Netanyahu, ma chiede più impegno nella protezione dei civili a Gaza.
L’elettorato Se la candidata democratica fatica a conquistare la fiducia degli elettori maschi bianchi, l’avversario ha lo stesso problema con le donne, soprattutto ora che i diritti riproduttivi sono un tema centrale. Se osserviamo la composizione razziale, l’elettorato afroamericano è ancora in larga maggioranza progressista, ma il margine si è ridotto perché, rispetto alle ultime elezioni, è aumentato il numero dei maschi che predilige il repubblicano; a riacchiapparli ci sta provando l’ex presidente Barack Obama nel rush finale. Osservati speciali gli ispanici, fondamentali per vincere gli stati in bilico, soprattutto Arizona, Pennsylvania e Nevada. Gli ultimi sondaggi dicono che il 57% voterà Harris (percentuale in calo rispetto al passato), mentre il 39% Trump, in barba alla retorica “anti-immigrazione”, spinti da valori antiabortisti e decisi sostenitori della costruzione del muro. Millennial e GenZ sono un’incognita. Più entusiasti rispetto a quando il candidato era Biden, rimangono una fascia ad alta astensione. Se le giovani per Harris sono il 67%, il 58% dei ragazzi predilige il partito repubblicano.
I conti della campagna Queste elezioni (presidenziali e congressuali) sono le più costose della storia: quasi 16 miliardi di dollari spesi, uno in più del 2020. A mettere maggiormente mano al portafoglio, grazie all’aiuto dei Super Pac (le organizzazioni che non lavorano direttamente per il partito, ma raccolgono fondi per i candidati). All’inizio di questo mese i blu avevano ancora 346 milioni in cassa, contro i 285 dei rossi.
Parole chiave Nel vocabolario dem di questa breve ma intensa corsa elettorale la parola “gioia” merita il podio. Harris e Walz «sono guerrieri gioiosi», così come la campagna e i supporter. C’è l’aggettivo “strano” usato per definire il ticket repubblicano e l’esclamazione “avanti”, con lo sguardo rivolto al futuro. Nel breviario Gop troviamo l’“integrità” del processo elettorale, il “buon senso” delle politiche da implementare. E i timori di “censura” dei contenuti conservatori su media e social. La “minaccia per la democrazia” è, invece, un anatema lanciato vicendevolmente.
Le altre corse In palio ci sono 34 seggi al Senato, tutti i 435 seggi della Camera e 11 poltrone governatoriali. I democratici potrebbero perdere la risicata maggioranza (di due soli seggi) in Senato, riprendendosi però la Camera se riuscissero a confermare gli attuali 214 seggi, portandone a casa altri 4. Tra le corse più interessanti, quella texana del senatore ultraconservatore Ted Cruz contro Colin Allred, ex giocatore di football; e quella in Arizona tra il progressista Ruben Gallego e la delfina di Trump Kari Lake. Ma nel plico elettorale gli americani troveranno anche i consueti referendum. In molti stati ci si pronuncerà sul diritto all’aborto e sulle sue limitazioni.
I comprimari Si dice che i vicepresidenti siano i “cani da combattimento” del tandem. Il secondo scelto da Kamala Harris, però, non potrebbe esserlo meno: Tim Walz, governatore sessantenne del Minnesota, ha il tono bonario dei babbi stereotipati del Midwest. Ex allenatore e insegnante alle superiori, “Coach Walz” ha il compito di portare a casa gli uomini bianchi. Dal Midwest viene anche il luogotenente ultraconservatore di Trump, il senatore dell’Ohio JD Vance. Il quarantenne, incarnazione del miracolo americano, punta alla classe media che si riconosce nel suo bestseller “Hillbilly Elegy”, e gli perdona i milioni guadagnati nella Silicon Valley. C’è anche un altro asset essenziale per i candidati alla presidenza: i rispettivi compagni. A gennaio Doug Emhoff potrebbe diventare il primo first gentleman d’America. Il marito di Harris (con qualche scheletro nell’armadio) sta facendo campagna senza sosta. Non così l’enigmatica Melania Trump. Una sfilata alla convention repubblicana, poche uscite pubbliche. Dopo due anni di assenza, un’unica intervista su Fox News per promuovere il marito e il suo libro.