Identità negate
La guerra della Destra agli adolescenti trans: «Noi esistiamo, fatevene una ragione»
La scienza dimostra che l’incongruenza tra identità e sesso non è una patologia o una "moda". E che la sofferenza deriva dallo stigma sociale. "Contro i nostri figli c'è una battaglia ideologica". E lo dimostra la cronaca: dall'ispezione al Careggi di Firenze alla campagna contro la triptorelina
«Per anni hanno urlato slogan osceni. Nelle piazze del Family Day, dentro il Parlamento. “Giù le mani dai bambini”, dicevano. In realtà era il loro programma di governo. Volevano mettere loro le mani sui nostri figli e sulla loro salute». Roberta ha 44 anni e una bambina di undici, Viola: quando ne parla il suo magnifico volto s’illumina. Si arrabbia con la voce che trema quando fa riferimento a quello che succede in Parlamento e, di riflesso, nella vita di sua figlia. Viola ascolta, ogni tanto annuisce. Sembra introversa, ma è solo attenta. Una bambina come tante, sveglia, con molte passioni: la moda, il teatro, la chitarra. Lo sguardo acceso sul mondo tutto intorno.
Nel mese di dicembre il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri ha depositato un’interrogazione parlamentare rivolta al ministro della Salute Orazio Schillaci per chiedere verifiche sull’uso negli adolescenti trans dei bloccanti che sospendono lo sviluppo puberale. Gasparri sostiene di avere ricevuto notizie secondo cui all’Ospedale Careggi di Firenze «non viene fornita assistenza psicoterapeutica e psichiatrica». Il ministro manda un’ispezione. Lo stesso Gasparri, in tv, nega l’esistenza delle persone transgender con un ghigno: «Cosa vuol dire? È una sceneggiata politica». Roberta osserva il video dal cellulare, sguardo serio, allunga la mano per una carezza a Viola, ma lei si scansa: «Io non sono una sceneggiata». Registrata come maschio all’anagrafe. Di sé, ricorda la madre, ha sempre parlato declinandosi al femminile: «Le raccontavo: quando tu sei nato. E mi correggeva. “No, mamma, io sono nata. Poi papà voleva un maschietto. Ma da grande sarò femmina”».
Viola è una bambina con varianza di genere, un tempo chiamata sindrome del transessualismo, collegata ai disturbi mentali, oggi più accuratamente descritta come incongruenza di genere, non più considerata una patologia. «Nella maggior parte degli individui, l’identità di genere è allineata al sesso assegnato alla nascita (cromosomico). Ma può succedere che, per un insieme complesso di fattori biologici, psicologici e sociali, il genere percepito non corrisponda al sesso biologico. Allora si parla, usando la terminologia dell’ultima edizione dell’Icd, il manuale dell’Organizzazione mondiale della Sanità, di incongruenza di genere. Tali condizioni, considerate un tempo patologiche (come del resto anche l’omosessualità), oggi, dopo anni di ricerche, sono riconosciute come normali varianti identitarie che non vanno interpretate come disturbi mentali», spiega Guido Giovanardi, psicoterapeuta, dottore di ricerca presso il dipartimento di Psicologia dinamica e clinica, all’Università La Sapienza di Roma. «Se presentano aspetti psicopatologici, essi sono dovuti nella maggior parte dei casi a un senso di sofferenza o disforia legata al corpo, che si sente non corrispondere a una percezione profonda, e alle esperienze di discriminazione e stigma che le persone transgender subiscono fin da piccole. Le ricerche hanno infatti dimostrato che i percorsi di transizione sociale (ovvero l’assunzione di nome e pronomi o la scelta degli abiti, legate al genere percepito e non al sesso biologico) o di terapia ormonale e riassegnazione medico-chirurgica determinano un netto miglioramento del benessere psicologico e una significativa diminuzione della sofferenza individuale».
«Alla scuola materna Viola ha iniziato a soffrire», racconta Roberta. «Le maestre ci dicevano che aveva un disturbo dell’attenzione. Andava a scuola con dei glitter e loro li sequestravano, le dicevano che doveva giocare come un maschio, guardare le partite di calcio. Ci hanno suggerito di portarla da un neurochirurgo, che ci ha risposto che non aveva alcun problema. Così siamo andati da una psicoterapeuta che ha inquadrato questa varianza di genere. In prima elementare mi chiamò il maestro per informarmi che Viola aveva fatto un annuncio: “Da grande sarò una femmina”. Avevo il cuore in gola. Chissà come avevano reagito i bambini. “Non si preoccupi, erano felici. Si sono complimentati anche per il nome che ha scelto”. La transizione sociale vera e propria l’ha fatta in quinta elementare». La storia di Viola è simile a molte altre, anche se si tratta di casi illuminati in un Paese come l’Italia dove molte famiglie chiudono la porta in faccia e altre costringono i propri figli a nascondersi. «Noi ci siamo sempre informati senza pregiudizio, ci siamo rivolti agli specialisti, abbiamo ascoltato, incontrato famiglie che avevano un’esperienza simile. La sua infanzia è stata abbastanza tormentata. La notte non dormiva. Non aveva incubi particolari, semplicemente era agitata. Solo quando ha fatto la transizione sociale si è rasserenata».
La vita delle persone transgender in Italia è una sfida continua. Per gli adolescenti più fortunati sono i genitori a cercare di rimuovere gli ostacoli: creano un ambiente sicuro tutto intorno, lottano per la carriera alias nelle scuole (dove il nome scelto sostituisce, ad esempio nel registro di classe, il nome anagrafico), educano amici e parenti, viaggiano in Italia alla ricerca di cure adatte, può capitare che affrontino tentativi di autolesionismo o peggio di suicidio per la transfobia della società. «L’accanimento del governo Meloni è crudele e negazionista», si sfoga Elisabetta Ferrari, presidente di Genderlens, collettivo di famiglie di bambin* gender creative e giovani persone trans: «Ci sono studi scientifici ventennali sui nostri figli. Portano avanti una guerra ideologica, fatta di fake news pericolose. Si continua a parlare di bloccanti come pillole che fanno cambiare il sesso distribuite come caramelle. La vita vera è da un’altra parte, la nostra esperienza di genitori è tangibile. Mentre queste posizioni mettono a rischio i nostri figli rafforzando una società che non li riconosce. Vogliono farli tornare nel buio, spingono al suicidio, all’autolesionismo. Qualcosa che conosciamo bene. Ma come si fa a rubare l’adolescenza e l’infanzia di queste giovani vite?».
Viola sente il corpo che cambia in una direzione che non è la sua. Non lo è mai stata. Dopo un’attenta valutazione multi-professionale, con il contributo di un’équipe multidisciplinare e specialistica, composta da neuropsichiatri dell’infanzia e dell’adolescenza, psicologi dell’età evolutiva, bioeticisti ed endocrinologi, la commissione dell’Ospedale Careggi discuterà nei prossimi mesi il suo caso per la prescrizione dei bloccanti. I farmaci usati, da molto tempo, per adolescenti che soffrono di pubertà precoce e dal 2018 concessi in Italia anche agli adolescenti trans, in accordo tra il Comitato nazionale di bioetica e l’Agenzia italiana del farmaco, al fine di sospendere – reversibilmente – lo sviluppo puberale in attesa di un eventuale percorso di transizione di genere. A patto che siano rispettati cinque paletti: corretta informazione, consenso dei genitori, tempistiche di somministrazione, sofferenza tale da portare ad atti autodistruttivi e monitoraggio di un’équipe multidisciplinare. «Sono contenta», dice Viola: «Perché non diventerò un ragazzo, sarò me stessa». «Speriamo presto», fa eco la madre. La burocrazia è lenta, la biologia è veloce. L’ispezione potrebbe rallentare ancor di più il tutto. Gasparri ha dato mandato che venga eliminata la prescrizione.
Sono dodici le società scientifiche che hanno chiesto di abbandonare questi giochi politici sulla pelle degli adolescenti, tra cui la Società italiana Genere Identità e Salute, la Società italiana di Andrologia medica e Medicina della sessualità, la Società italiana di Endocrinologia, la Società italiana di Pediatria endocrinologia e Diabetologia: «La triptorelina (il bloccante della pubertà, ndr) è un farmaco salvavita nei giovanissimi transgender, prescritto solo dopo attenta valutazione multi-professionale, il cui scopo non è né castrare chimicamente e definitivamente né modificare orientamento e identità sessuale, ma dare tempo ai giovani sofferenti e alle famiglie di fare scelte ponderate e mature, impedendo stigma sociale, autolesionismi e suicidi». Il governo resta sordo, pazienza per la ricerca scientifica e i diritti conquistati. La diversità resta un inciampo. Una ricchezza da abbattere.