Il dolore senza margini delle madri che aspettano ancora i loro figli, 500mila giovani scomparsi nelle prigioni del regime: Damasco è anche questo. La città ci accoglie nella sua ritrovata libertà, tra la fame di giustizia e il sogno della democrazia. Qui maestosità e miseria si cedono il passo con lo stesso ritmo con cui la gioia per la caduta del regime inciampa tra le paure della gente. Mentre lungo la costa si consumano violenti massacri sulla popolazione alawita (lo stesso gruppo etnico di cui fa parte Bashar al Assad) da parte di milizie legate all’ufficialmente dimesso Hay’at Tahrir al-Sham, tra le case dei siriani risuona la necessità di fare giustizia per evitare la vendetta. Quella stessa vendetta che a oggi ha causato la morte di più di mille civili brutalmente trucidati, il più grande spargimento di sangue dalla caduta del regime.
Wisal è a casa di uno dei suoi sette figli. Quando apre la porta si guarda attorno, controlla che nessuno ci stia seguendo. Si presenta come «la madre di Faisal», prima ancora di dire il proprio nome. «Non vedo mio figlio dal 2013. L’ultima volta eravamo a Damasco, durante la guerra, era uscito per comprare lo zucchero e non è più tornato». Dodici anni fa, Faisal scompare nel buco nero da cui centinaia di migliaia di giovani siriani sono stati risucchiati durante gli anni del regime. Wisal si alza e zoppicando si reca nella stanza accanto, da un cassetto estrae ben conservato il passaporto del figlio, lo bacia prima di aprirlo. «Ecco, lui è mio figlio», dice mostrando la foto ingiallita di Faisal, «aveva 28 anni quando è stato arrestato», continua. «Non stava né con il regime né con i ribelli, mio figlio era un pacifista. Le milizie del regime mi hanno detto che era vivo solo dopo 4 anni che lo cercavo disperatamente, ma non ho mai saputo dove fosse recluso», spiega la donna, «era il ragazzo più dolce del mondo.

Negli anni ci sono state diverse liberazioni di massa dalle carceri, ho aspettato sempre che venisse liberato anche lui ma non è mai uscito. Quando il regime è caduto suo fratello è andato a cercarlo a Sednaya, ma Faisal non c’era. Io lo aspetto ancora». Wisal non si dà pace: «Continuo a sperare che mio figlio sia ancora vivo, dopo la caduta del regime ho pensato di poterlo rivedere, passo la vita ad aspettare. Da quando lui non c’è più ho sempre freddo, mi sono ammalata, ma il cuore di una madre sa la verità e io so che è ancora vivo», continua la donna tra i singhiozzi.
Nonostante Faisal non fosse tra i prigionieri liberati né tra i corpi ammassati negli ospedali nei giorni successivi alla caduta del regime, oggi nessuno aiuta Wisal nella ricerca del figlio. «Ho cercato tra i cadaveri con le mie mani, ma lui non c’era. Nessuno del governo ci aiuta. Non posso perdonare Assad, chiedo a Dio di non perdonarlo e di punirlo. E chiedo alla comunità internazionale di aiutarmi a trovare mio figlio».
Sanah, invece, alla comunità internazionale chiede una sola cosa: «Come ha potuto lasciare che Assad uccidesse i nostri figli?». Porta il lutto negli occhi, la speranza per Sanah è finita tanti anni fa. Vive a 100 km da Damasco, nel profondo sud di Suwayda, la più grande cittadina a maggioranza drusa della Siria. L’immagine di William, il figlio scomparso nel 2012, copre il muro della stanza in cui ci accoglie. Un tavolo imbandito di dolci e frutta colora l’atmosfera cupa. «Come tutti i giovani siriani anche William è stato costretto a servire nell’esercito del regime. Aveva 19 anni quando ha iniziato, e 21 quando è scomparso», racconta la madre girando nervosamente l’anello che ha al dito. «Era un ragazzo dolce, voleva studiare, ma gli è stata strappata via la vita. Nessuno ci ha mai detto che fine ha fatto». In questi anni William è stato considerato un martire dal regime, come tutti coloro che sono scomparsi servendo Assad, anche se a farli scomparire spesso è stato il regime stesso. Come madre di un martire, Sanah ha sempre ricevuto un sussidio che da dicembre però le è stato revocato, così come al figlio è stato revocato il titolo di martire. «William è considerato un collaboratore di Assad –aggiunge Walid, il padre – per questo agli occhi del nuovo governo lo siamo anche noi; ma William non aveva altra scelta. Se considerano traditori tutti coloro che hanno prestato servizio militare con il regime, allora più della metà dei siriani sono traditori. Questa non è giustizia. Per noi la giustizia è trovare nostro figlio, fosse sopra o sotto la terra. Ma nessuno ci aiuta».
Dopo la caduta del regime anche Sanah e Walid si sono uniti alle centinaia di migliaia di genitori che tra le celle di Sednaya cercavano i propri figli o quel che di loro restava. Di William, però, non c’era nessuna traccia. «Se mio figlio oggi fosse qui gli direi solo che sono felice che sia tornato e che questo incubo sia finito», conclude Sanah mentre si asciuga le lacrime che le scorrono veloci sulle guance.
Il fratello di Safa, invece, è scomparso nel 2012. «Aveva 21 anni, stava andando a Damasco. Ho scoperto che era stato arrestato due giorni dopo la sua scomparsa», racconta in un bar della capitale, dove è costretta a vivere da quando la sua casa ad Idlib è stata distrutta dalle bombe del regime. «La mia vita – continua la giovane donna – è finita con la scomparsa di mio fratello Ahmad. Sono andata a Sednaya con mio marito per cercarlo, avevo sognato che fosse lì, ma non ho trovato nessuna informazione. Mia madre è sicura che sia vivo, mi chiede di non smettere di cercarlo per strada, nei bar, nei parchi; un giorno mi è sembrato di vederlo su un autobus, quando ho capito che non era lui non sono più riuscita a smettere di piangere». Safa è seguita dall’Associazione dei detenuti di Sednaya, una delle poche che lavorano in supporto alle famiglie dei dispersi. L’associazione, che ha sempre operato di nascosto, con la caduta del regime è finalmente uscita allo scoperto assumendosi, al posto del governo, il compito di aiutare circa 2000 famiglie nella ricerca di 500mila dispersi.
«Credo che la condanna dei responsabili di ciò che è accaduto nelle prigioni del regime faccia parte del processo di pacificazione necessario alla transizione democratica di questo Paese», dichiara a l’Espresso Montaser Abdelsater, ex ufficiale dell’esercito di Assad, dissidente ed ex prigioniero, oggi presidente dell’Associazione dei detenuti di Sednaya. Dal 2018 lavora alla costruzione di due diversi database che hanno raccolto in carcere notizie sui sopravvissuti e i dispersi. Dell’associazione fanno parte ex prigionieri, formati per supportare chi è uscito da Sednaya dopo la fuga di Assad, ma anche terapisti e avvocati che operano sia per i sopravvissuti che per le famiglie degli scomparsi.
«Uno dei problemi – continua Abdelsater – è che il nuovo governo di transizione non si sta prendendo cura di coloro che ha liberato e delle famiglie che aspettano ancora i propri cari. Non c’è nessuno che cerca gli scomparsi, non c’è un’inchiesta, non c’è il tentativo di fare luce su cosa sia successo dentro quelle prigioni. Queste persone sono abbandonate a loro stesse. Abbiamo bisogno dell’aiuto della comunità internazionale e delle Ong. I familiari non chiedono vendetta, ma aspettano giustizia da più di dieci anni», conclude.
«Nessuno ci ha aiutato. Ci hanno liberati e poi abbandonati», urla Aysar trascinandosi la gamba destra. Aysar è uscito dalla prigione 215 nei giorni dopo la caduta del regime. «Quando i ribelli sono entrati ho sentito solo “Allah è grande” e poi non ho capito più niente. Avevo paura di guardare il cielo, non credevo fosse reale», continua raccontando la sua liberazione, «quel giorno sono rinato». Aysar è rimasto invalido in seguito alle torture subite in sei anni di prigionia, due dei quali in isolamento: «Ci mettevano a mani unite legate al tetto, mentre ci bastonavano. Un giorno la corda con cui ero legato si è rotta e sono caduto a terra. Mi si è fratturata la gamba a causa delle botte e della caduta. Mentre ero a terra e urlavo dal dolore il carceriere ha iniziato a darmi colpi di bastone sull’anca. Nessuno mi ha mai portato in ospedale. Sono rimasto altri cinque anni in prigione con la gamba rotta, ho provato più volte ad ammazzarmi pur di smettere di soffrire». Adesso Aysar è finalmente nella sua casa a Suwayda, dalla moglie Maysaa e le figlie Bissan e Assinat, che lo abbracciano mentre mima le torture subite in prigione. «Perdono i miei torturatori, ma voglio giustizia. Voglio che qualcuno mi aiuti ad operarmi, voglio che qualcuno mi aiuti a ricominciare a lavorare, a sfamare la mia famiglia – conclude l’uomo con la voce rotta – voglio che le mie figlie non vivano la vita che ho vissuto io».