Le radici del’Italia repubblicana e i due poli della politica nazionale. Ne abbiamo parlato con Luciano Violante, ex presidente della Fondazione Leonardo Civiltà delle Macchine, che alla fine degli anni Novanta pose la questione – rimasta oggi aperta – dell’identità nazionale.
Quale può essere il bilancio della ricerca di una «storia comune» della Repubblica che lei, quando era presidente della Camera, avviò rivolgendosi alla sinistra e alla destra, il 14 marzo 1998, quasi trent’anni fa, a Trieste, nel confronto pubblico su “Democrazia e Nazione”, con Gianfranco Fini?
«Il dibattito del 1998 fu preceduto dal mio discorso nell’aula di Montecitorio quando venni eletto alla presidenza della Camera. In quella occasione sostenni che occorreva sforzarsi di capire le ragioni degli altri non per condividerle, non per una parificazione, perché non siamo stati pari, né per una pacificazione, perché siamo in pace, ma perché era fondamentale costruire un concetto unitario di Nazione in cui tutti si riconoscessero nonostante la guerra civile che ci ha divisi. Apparteniamo alla stessa Patria. Un concetto che si stava faticosamente costruendo nell’Italia liberale in continuità con il Risorgimento, ma che fu frantumato dal fascismo che considerò italiano solo chi aderiva al fascismo ed estraneo all’Italia chi non era fascista. Ci si avvalse dell’omicidio politico, da don Minzoni a Matteotti. Fu costituito il tribunale speciale. Le leggi razziali del 1938, contro altri italiani, e la subalternità ai nazisti segnarono il solco più profondo di questa frattura. Spettò alla Liberazione riprendere il concetto di Patria. Il giornale dell’Anpi si chiamava e si chiama Patria Indipendente. Tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, ci fu la polemica, cortese e a distanza, fra Enrico Galli della Loggia e Carlo Azeglio Ciampi, allora presidente della Repubblica, da una parte con la tesi che l’8 settembre avesse rappresentato la morte della Patria, dall’altra con l’affermazione che quella data ne avesse segnato invece la rinascita. La mia idea, della quale parlai con il presidente Ciampi, è che la Patria è nata il 25 aprile. Quello fu il battesimo della Patria. Infatti la Costituzione repubblicana dichiarerà che la difesa della Patria è “sacro dovere” del cittadino».
Allora, per quale motivo alla fine degli anni Novanta si aprì a Trieste il dibattito che abbiamo ricordato? E soprattutto a cosa ha condotto?
«La questione riguardava il confine orientale e le foibe. Temi dolosamente lontani dalla storiografia ufficiale e dal dibattito pubblico e inevitabilmente connessi alla Liberazione e all’antifascismo. La questione posta quasi trent’anni fa è rimasta aperta. A volte, ha prevalso nella sinistra un’idea proprietaria della Liberazione, non del tutto sbagliata, ma di ostacolo a una dinamica democratica più aperta che avrebbe dovuto consentire a tutti gli italiani la possibilità di riconoscersi nell’Italia repubblicana, costituzionale e democratica. In questa omissione c’è anche una responsabilità storica della Democrazia cristiana che nei primi anni della Repubblica temeva di offrire, con il ricordo solenne del 25 aprile, troppo spazio alla sinistra; si è impedito così di farne un fatto nazionale».
Oggi, è sufficiente che la destra della Fiamma si consideri di fatto afascista anziché antifascista?
«L’afascismo mi sembra una modesta astuzia; possiamo essere indifferenti rispetto alla dittatura mussoliniana e a Salò? La Repubblica è antifascista perché nasce dalla lotta al fascismo. Altra cosa è cercare di capire le ragioni per le quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, decisero di schierarsi dalla parte dei vagoni piombati e non dalla parte della libertà».
Ritiene che abbia torto anche chi accusa Fratelli d’Italia, di fascismo?
«Sì. È una posizione infantile e puramente ideologica che non va al merito del conflitto tra destra e sinistra. Anche se a destra non manca una minoranza ristretta, ma pericolosa perché violenta. Penso all’attacco alla Cgil, alle posizioni antisemite. Va isolata».
Come vede Fratelli d’Italia?
«È un partito di destra. Non è un partito fascista. Si avvia a diventare un partito conservatore. Spero che Giorgia Meloni e il suo gruppo dirigente riescano a costruire anche formalmente un partito conservatore italiano per rompere gli equivoci con il passato e per offrire alla stessa destra una prospettiva, anche al di là del presente. Altrimenti, il partito diventerebbe un circolo chiuso».
In sostanza lei ritiene che sia preferibile una Destra italiana, guidata da un partito conservatore, anche per non assecondare la deriva che vediamo altrove in Europa, addirittura con nostalgie neo-naziste?
«Sì. L’avanzata dei movimenti di destra nasce dal mancato impegno a favore della democrazia, che avrebbe richiesto di continuare a coltivarne i valori trasmettendoli alle nuove generazioni. La caduta del Muro animò facili ottimismi sulla eternità della liberaldemocrazia e del mercato. Erano ottimismi infondati perché la democrazia ha bisogno del mercato, ma il mercato non ha bisogno della democrazia. È necessaria invece una nuova pedagogia democratica e costituzionale. Avere omesso questo impegno ci ha portato a misurarci, nel nostro Continente, oggi l’unico liberaldemocratico, con estremismi neofascisti o neonazisti. In Italia, la Destra può evitare questi rischi. E la Sinistra riprenda nelle proprie mani tutti i fili della giustizia sociale».