Pubblicità

Barenboim: "Mozart, la politica e io"

image/jpg_2167416.jpg
image/jpg_2167416.jpg

Incontro col  direttore d'orchestra il giorno della prima del "Don Giovanni" che apre la stagione alla Scala di Milano

image/jpg_2167416.jpg
Per Goethe, cui deve l'ispirazione per il nome dato alla sua "West-Eastern Divan Orchestra" che riunisce strumentisti israeliani e arabi, "in principio era l'azione". Per Daniel Barenboim, sessantanovenne direttore musicale della Scala, protagonista del "Don Giovanni" mozartiano che il 7 dicembre inaugurerà la nuova stagione della sala del Piermarini, piuttosto "in principio era il suono". Se, da una parte, Barenboim è fermamente convinto che sia impossibile parlare della musica ("Il compositore e pianista Ferruccio Busoni affermava giustamente che "la musica è aria sonora""), registrando solo le numerose definizioni che in realtà ne descrivono esclusivamente una reazione soggettiva, dall'altra, su tutto ciò che da essa prende forma, dall'interprete al compositore, dalle riflessioni sulla creazione dell'opera alla condotta dell'artista nella società, non si tira indietro dal dire la sua: "Se provo a parlare della musica è perché l'impossibile mi ha sempre attratto più del difficile. Non fosse altro perché tentare l'impossibile è, per definizione, un'avventura, e mi comunica una sensazione di energia che trovo assai attraente".

Parte da lontano, in questa conversazione, il maestro. Vuole soffermarsi, in questi tempi di crisi globale, contrassegnata da una mancanza di credibilità della classe politica e dei poteri dominanti, sul ruolo degli intellettuali. Per Barenboim è un dovere morale, in comune sentire con il pensiero dello scomparso amico palestinese Edward Saïd: "Oggi c'è bisogno di una generazione di intellettuali focalizzati sulla cosa comune, slegati dalle logiche dei poteri, al fine di promuovere una cultura dell'etica e della conoscenza". Certo, la pigra classe intellettuale italiana farebbe fatica a seguirlo, non sono mica tutti coraggiosi come Umberto Eco. "Conosco Eco e lo ammiro molto", chiarisce. "Non posso dire di conoscere altrettanto l'intellighenzia italiana. La tesi di Saïd era che in una società democratica l'intellettuale deve separarsi dalla politica, dal potere, per criticarlo e cambiare la realtà. Per fortuna in Italia abbiamo un presidente della Repubblica di alta autorità morale come Giorgio Napolitano. Di lui c'era bisogno quando c'era un governo politico, ma ancora oggi, con uno cosiddetto tecnico. L'autorità morale è una cosa molto difficile da definire, non ci si può presentare come candidati per ottenerla e non la si può comprare. L'autorità morale è comunque qualcosa che si può avvertire distintamente. Io l'avevo già percepita in Germania con il presidente Richard von Weizsäcker. Il problema della democrazia è che quando si fanno delle elezioni, il popolo, la società, ha il diritto di votare e di scegliere i suoi leader. Ma il popolo non dovrebbe fermarsi a questo punto; mentre il potere sta governando, la democrazia secondo me avrebbe bisogno sempre di una sua partecipazione diretta. Se questa non è di tutti i cittadini senza eccezione, allora occorre l'opera di un gruppo di intellettuali. Il cui ruolo non è utile soltanto alla critica del potere, ma anche per sollecitare questo coinvolgimento di tutti alla democrazia. E questi intellettuali dovrebbero avere un po' di quell'autorità morale cui accennavamo. È così che la democrazia si è sviluppata nell'antica Grecia".

Nel suo concetto di morale, di libertà, si sente l'influenza dell'"Etica" di Spinoza. Un libro che si porta sempre dietro, la sua laicissima Bibbia. "Spinoza è stato il mio maestro, è la forma del mio pensiero. Spinoza era cosciente da un lato della capacità dell'essere umano di ragionare e sviluppare le sue idee, dall'altro delle sue debolezze congenite. Per Spinoza il nemico più grande della felicità umana è l'angoscia, che si può risolvere almeno in un certo grado col pensiero logico, sempre cosciente della relatività dei sentimenti racchiusi in uno spazio di tempo".

Ma veniamo all'artista e alla sua attività, nel caso di Barenboim il prossimo "Don Giovanni" scaligero. C'è chi ha interpretato Don Giovanni come un eroe preromantico, chi come Kierkegaard lo ha caricato di problematiche estetiche ed esistenziali o come George Bernard Shaw l'ha velato d'istrionica ironia, facendolo perseguitare dalle donne. Qual è il Don Giovanni che vedremo il 7 dicembre? "Fondamentali sono la musica e il libretto", dice Barenboim, "ma, pure, non dobbiamo dimenticare che Don Giovanni è un mito. E per conoscerlo meglio ritengo indispensabili le letture di Camus e di Kierkegaard. In particolare quest'ultimo ha visto con grande chiarezza lo sviluppo della sensualità da Cherubino a Don Giovanni. Se si pensa alle "Nozze di Figaro", Don Giovanni è anche l'evoluzione di un personaggio come il Conte, con tutti i problemi sociali, dell'autorità e dell'ordine familiare che vi sono connessi. Però il Conte nelle "Nozze" non è un mito, diversamente da Don Giovanni".

Il Don Giovanni mozartiano pare correre incontro al suo destino con un sorriso beffardo e sprezzante. "Gli altri personaggi sul palcoscenico e il pubblico, pure con tutto l'umorismo, il buffo e i colpi di genio del librettista, dovranno sentire il coltello sotto la gola, la tensione, il pericolo incombente, soprattutto nel primo atto. Ma Don Giovanni non ha paura. Non teme il tempo e quindi la morte. E questo è, in definitiva, il suo fascino, che non si spiega semplicemente con il numero di arie che lo vedono protagonista. Infatti Mozart ne ha scritte solo due per Don Giovanni ("Fin ch'han dal vino" e la serenata "Deh vieni alla finestra"), tante quante per Donna Anna". Don Giovanni, insomma, non ha bisogno degli "assolo" per mostrare chi sia. "Lui è grande perché è se stesso. Questa è la forza del mito. Ciò che rende unica questa partitura è la stessa definizione di quello che è la musica: una cosa e il suo contrario. In Mozart l'allegria è sempre accompagnata da qualcosa di cupo, e il cupo non è mai del tutto privo d'allegria. Quando la situazione soggettiva è tragica, come nel caso di Donna Anna, la situazione oggettiva è comica, e viceversa".

Con Mozart, Barenboim trascorrerebbe volentieri una giornata, da amico. Con Wagner avrebbe qualche problema. "Wagner è uno dei compositori più importanti della storia della musica. Ma mostra comprensione soprattutto per chi dà a sé e ai propri pensieri un'importanza smisurata. Mentre Mozart dice che nella vita non c'è niente di morale, immorale o amorale. A meno che l'essere umano non faccia di sé qualcosa di morale, immorale o amorale. La grandezza dell'opera di Mozart è anche questo: tutta la sua profondità, il suo capire l'ambiguità dei sentimenti e dei pensieri umani, pare quasi che scaturisca dalla sua mente in maniera naturale, istintiva, come se avesse da sempre tutto scritto nella testa. Beethoven, per esempio, non era così, basta guardare gli spartiti: anni per cambiare questo o quel dettaglio, tanti sofferti ripensamenti. Sa quanto tempo è passato dal momento che Metastasio ha dato a Mozart il libretto della "Clemenza di Tito" alla prima esecuzione dinanzi al pubblico? Diciannove giorni. In questo intervallo di tempo Mozart ha scritto l'opera, è stata copiata, i cantanti hanno fatto le prove e l'hanno imparata. Forse non c'era la messa in scena, ma l'hanno interpretata sul palcoscenico a memoria. Pensi di che livello intellettuale stiamo parlando". La voce di Barenboim pare incrinarsi per l'emozione: "Ciò che Mozart vedeva, pensava, toccava, diventava musica. Il direttore d'orchestra Josef Krips una volta mi disse: "Beethoven ci innalza al cielo. Mozart ne discende"".

E poi c'è la polemica. A Barenboim, interprete di riferimento per Mozart, Beethoven e Wagner, spesso viene rimproverato di non trovarsi a suo agio nell'affrontare l'opera italiana. "L'italianità è un concetto molto più complesso di quel che di solito si intende. Cos'è l'italianità? È Dante, Boccaccio, Pirandello, Verdi o Rossini? Cinque universi diversi. Hanno qualche cosa in comune? Sì. Ma questo, a mio modo di vedere, è molto meno interessante di ciò che li differenzia. La teutonicità nella musica cos'è? È Brahms, Wagner, Beethoven o Schumann? Brahms e Wagner, artisticamente parlando oltre che umanamente, erano nemici. Andavano in due direzioni diverse. Quando si parla dell'italianità in Italia, a volte si rasenta la superficialità. Verdi è molto più grande della sua cosiddetta italianità. Nel suo studio aveva le partiture dei Quartetti di Beethoven e poi ha osato scrivere il suo. Cosa vuol dire? Per un musicista esperto è evidente che il suo modo di intendere il fraseggio, il ritmo e il suono devono essere assolutamente diversi da quelli di Beethoven, Wagner o Debussy". In effetti direttori non italiani hanno dato grandi prove affrontando il nostro melodramma, basterebbe pensare a Karajan o a Schippers. "Certo la latinità, più che l'italianità, è un altro modo di vedere la vita piuttosto che la teutonicità. E convengo che ci sono elementi nazionalistici di tipo culturale. Il problema incomincia quando questo nazionalismo culturale diventa politico. Quando i tedeschi dicono "per comprendere la musica tedesca bisogna capire questo elemento teutonico intrinseco", hanno ragione. Ma quando negli anni Venti e Trenta i nazisti affermavano: "Soltanto un tedesco può capire questa musica", scadiamo nel fascismo".

L'esistenza di Barenboim, fanciullo prodigio come Mozart, è stata attraversata da tante importanti personalità: per citarne solo alcune musicali ricordiamo Arrau, Klemperer, Rubinstein, Stokowski, Nadia Boulanger, la du Prè (sua prima moglie), Barbirolli, Fischer-Dieskau, Benedetti Michelangeli, Celibidache, Boulez; con Abbado e Mehta fu studente all'Accademia chigiana. Il grande direttore Wilhelm Furtwängler quando Barenboim era bambino gli scrisse una lettera di raccomandazione a dir poco lusinghiera. E proprio di questo grande umanista egli ha amato l'interpretazione del "Don Giovanni" e, in generale, l'approccio verso l'arte: "Furtwängler intendeva la musica in termini filosofici. Aveva capito che essa non riguarda le asserzioni o l'essere, ma il divenire. Quello che importa veramente non è il significato di una frase musicale, bensì come ci si arriva, come la si lascia e come si compie la transizione alla frase successiva". In fin dei conti anche una preziosa metafora della vita.

L'edicola

La pace al ribasso può segnare la fine dell'Europa

Esclusa dai negoziati, per contare deve essere davvero un’Unione di Stati con una sola voce

Pubblicità