Il ministro Balduzzi vuole riorganizzare la rete della medicina generale e i servizi di assistenza domiciliare. Ma per farlo servono fondi e medici con competenze specifiche. E finora invece il governo ha solo tagliato
di Ignazio Marino
22 ottobre 2012
image/jpg_2193395.jpgCosa fa un cittadino toscano se di sabato sera ha un attacco di orticaria? Si rivolge al centro di cure primarie più vicino dove rapidamente viene sottoposto agli esami e poi alle terapie mentre i familiari possono prendere un caffè nel punto di ristoro prima di tornare a dormire a casa. Cosa fa, invece, un cittadino del Lazio con lo stesso problema? Corre al pronto soccorso dove attende su una sedia per cinque o dieci ore, senza sapere quando arriverà il suo turno. Se è fortunato otterrà un'iniezione di cortisone da un medico stremato che, mentre visita, si arrabbia perché non trova un letto per un malato con l'infarto e probabilmente anche per il suo contratto da precario in scadenza.
GLI ITALIANI CONSIDERANO il pronto soccorso un punto di riferimento per qualunque malanno, dall'otite al mal di gola al colpo della strega. A volte non c'è altra possibilità ma spesso il ragionamento è diverso: anche se si aspettano alcune ore, la qualità dell'assistenza è di buon livello e il costo del ticket non è paragonabile a un percorso fuori dal pronto soccorso tra esami, radiografie, tac e via di seguito. E così i reparti di emergenza continuano a salvare le vite ma lavorano anche come centri diagnostico-terapeutici gratuiti e aperti 24 ore. Le conseguenze si comprendono dai numeri: 23 milioni di accessi l'anno, 18 dei quali (pari al 78 per cento) sono pazienti che potrebbero essere curati efficacemente altrove.
Tutto ciò, in realtà, non è che la conseguenza di un'organizzazione della sanità che, dalla metà del Novecento a oggi, ha posto l'ospedale al centro del sistema di cura e di diagnosi. I medici di famiglia non sono più veramente "di famiglia". Spesso devono prescrivere ricette ordinate da altri medici, compilano moduli e impegnative per visite ed esami, hanno perso autonomia e con essa anche la motivazione ad assumersi gravose responsabilità.
In questo contesto, la proposta di riforma del ministro della Salute è senz'altro giustificata. Immaginare un futuro dove ci saranno studi medici associati aperti 24 ore tutti i giorni significa pianificare una grande innovazione non solo organizzativa ma anche culturale. In una società di anziani, con molti malati cronici, la sanità pubblica sarà economicamente sostenibile solo valorizzando la rete della medicina generale e i servizi di assistenza domiciliare. L'idea del ministro è condivisibile, peccato che la sua legge non sia realizzabile. Prima di tutto perché non stanzia nemmeno un euro per avviare il processo di riorganizzazione. Come se i medici che lavorano di notte o di domenica, gli infermieri, i tecnici, i nuovi ambulatori, la strumentazione, non avessero un costo. La Toscana, per esempio, anni fa ha investito 18 milioni di euro per realizzare 40 distretti avanzati di cure primarie a cui aggiunge ogni anno 17 milioni per garantirne il funzionamento. Grazie a questa nuova organizzazione, un paziente con la fibrillazione atriale viene seguito nella diagnosi, nella cura cronica e anche per un malore improvviso. E così si riducono i ricoveri non necessari, che costano mille euro al giorno. Sono investimenti tutto sommato contenuti ma sono il minimo indispensabile per avviare una riorganizzazione.
NON SI POSSONO FARE riforme a costo zero come vorrebbe il ministro Balduzzi, tanto meno quando la legge di stabilità, varata pochi giorni fa, toglie 600 milioni alla sanità per il 2013 e un miliardo nel 2014, dopo ben 21 miliardi di tagli degli ultimi tre anni. C'è un secondo elemento che non va trascurato: per una riforma efficace delle cure primarie servono medici con competenze specifiche per assistere i malati cronici, cardiopatici, ipertesi, diabetici, per le diagnosi precoci e l'importantissima attività di prevenzione. Dunque occorrono risorse, formazione, tempo. Di tutto questo nella proposta del governo non c'è traccia, nemmeno un vago riferimento. Allora la legge di cui si è tanto parlato, e che ha creato lecite aspettative nei cittadini, così com'è non è altro che un esercizio intellettuale, utile come argomento di discussione per un convegno. Ma non è, e non sarà, una riforma.