
È DI QUALCHE GIORNO FA l'annuncio di una campagna promossa dal professor Umberto Veronesi per l'abolizione dell'ergastolo, quel "fine pena mai" che riguarda molti detenuti italiani. La riflessione di Veronesi prende le mosse dalla Costituzione, dal principio che postula la rieducazione del condannato attraverso la pena, per arrivare a una conclusione scientifica. L'ergastolo sarebbe fisiologicamente un nonsense perché il nostro cervello muta nel corso degli anni, alla luce delle esperienze che si accumulano nell'arco della nostra vita.
Dunque anche i riferimenti morali di un soggetto che ha commesso un reato cambiano a distanza di tanti anni dal fatto delittuoso. Per questo, sostiene Veronesi, l'ergastolo oltre a essere incostituzionale è antiscientifico. E, aggiungo io, è segno di una resa incondizionata dello Stato a una logica di sola deterrenza del tutto estranea all'idea di pena come rieducazione e reinserimento nella società.
La realtà ci offre un'immediata controprova. L'anno scorso, il 22 luglio 2011, in Norvegia si è consumata una strage premeditata che ha spento le vite di decine di giovani innocenti. L'autore, Anders Breivik, è stato subito individuato e arrestato. A distanza di poco tempo è stato processato. Il 24 agosto del 2012 il mondo ha assistito incredulo alla lettura del verdetto: il Tribunale lo ha condannato a ventuno anni di carcere, pena massima prevista dalla legge norvegese. Ho immediatamente associato questo fatto alle parole di Veronesi e la mia conclusione è che lo Stato norvegese ha dimostrato una forza assoluta rispetto all'orrore che era capitato.
Con quella sentenza si è affermata la possibilità, in un tempo determinato per quanto lungo, di riuscire a rieducare un soggetto con una personalità criminale eclatante, tanto da consentirgli, quando la pena sarà stata completamente espiata, di tornare a far parte della società. L'ergastolo, il "fine pena mai", non deve essere una pena di morte camuffata. Non deve essere la resa dello Stato, che ammette di non essere in grado di reinserire nella società l'autore di un reato. Il paradosso dell'ordinamento italiano è nella sua ipocrisia, che getta una luce di coerenza (per quanto inaccettabile) sulla pena di morte in vigore in alcuni Stati americani. Lì la pena ha una mera finalità deterrente, non c'è interesse al recupero del condannato e la sua espulsione dalla società è immediata. Non è dunque un caso che in Italia molti condannati all'ergastolo chiedano l'introduzione della pena di morte.
NON È UNA PROVOCAZIONE, ma un richiamo alla coerenza rivolto a uno Stato incapace di realizzare il reinserimento di Caino nella società. Gli ergastolani ci dicono: se non volete rieducarci, allora ammazzateci, ma assumetevene la responsabilità morale. Già immagino l'obiezione: "Saviano, proprio tu che ti occupi di mafie, proprio tu che hai denunciato cosa i clan campani hanno fatto alla tua terra d'origine, proprio tu che vivi sotto protezione da sei anni per le minacce di chi ha ammazzato innocenti, come fai a pensare che ci possa essere rieducazione?". Ecco, è qui il perno del mio discorso: credo che lo Stato debba mostrarsi forte, e per esserlo non può gettare la spugna, non può non tentare il tutto per tutto per recuperare chiunque. Anche chi in questo momento sta rendendo la mia vita un inferno.