Pubblicità
Archivio
luglio, 2012

E gli spagnoli si sentono truffati

image/jpg_2187951.jpg
image/jpg_2187951.jpg

Da Madrid a Barcellona, sta esplodendo la rabbia sociale di un intero Paese. Dove la gente è sempre più convinta che il crac sia soltanto un sistema per allargare la forbice sociale

image/jpg_2187951.jpg
Non sarà elegante, ma rende il sentire generale, il cartello che in faccia al Museo del Prado inalberano Leonor Aragón e Estrella Martinez de Morentin, insegnanti precarie di liceo, 1.800 euro al mese, la quattordicesima appena cancellata dal governo di Mariano Rajoy come a tutti gli statali, il posto in forse perché hanno tagliato classi e programmi educativi. Recita: "Nos mean y dicen que llueve", letteralmente "ci pisciano addosso e dicono che piove". Ovvero, ci raccontano che non si può fare altrimenti, tagliare, rinunciare, sacrificare (in Italia la formula è "ce lo chiede l'Europa"): «Invece quelle di Rajoy sono scelte precise contro di noi, contro la classe media e i lavoratori, a favore di chi ha speculato e specula e di chi a tal punto ha sgovernato questo paese da lasciarlo sul lastrico. Dicono che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Mentono. Sono loro che hanno vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Chi? Tutti. Non si salva nessuno. Mancano in Spagna politici "honorados"».

Degni di onore, di rispetto: c'è in quel termine tutto il senso di frustrazione e di disorientamento che respiri nelle proteste della capitale come nelle altre grandi e medie città. Certo, gli indici economici sono impietosi: il Pil 2012 è previsto in calo tra l'1,5 e l'1,7 per cento, il deficit è al 6,3 per cento, la disoccupazione al 24,6, gli interessi sui "bonos" al 7,7 in crescita, il valore delle case (tutto cominciò nel 2008 con la bolla immobiliare) è crollato del 15 per cento e i mutui del 25. L'ultima crisi spagnola, scoppiata all'improvviso ai primi di maggio, rischia di essere la mina che fa saltare l'euro e l'Europa.

Ma c'è negli spagnoli una delusione più profonda. Per essere stati ingannati ieri e traditi oggi. Lo si vede il 19 luglio con i centomila che a Madrid calano alla Puerta del Sol e fino a notte la occupano scontrandosi con la polizia: ceto medio, impiegati, statali di un'amministrazione non mal funzionante ma elefantiaca, disoccupati ormai tra i giovani al 50 per cento, medici e infermieri con gli ospedali a rischio, madri che a settembre su tempere e quaderni dei figli a scuola pagheranno l'Iva al 21 anziché al 4 per cento.

E poi "mineros y bomberos", i minatori dalla provincia di Teruel e i pompieri che inondano di schiuma la piazza, persino poliziotti in borghese. Cortei e flash-mob nei giorni successivi, quando da un ufficio scendono in trenta e urlano slogan sotto uno dei palazzi del potere, e la sera quando migliaia di disoccupati tengono assemblea in mezzo ai turisti che scattano foto, agli skaters, alle statue viventi del fachiro sospeso in aria, del fantasma, dei mostri di Alien. C'è Gabriela, studentessa di Belle arti e cameriera per campare, che non avrà più il presalario. Alba, che insegna Topologia a Matematica e ti spiega come «il taglio secco dei finanziamenti distruggerà in un colpo quella struttura della ricerca scientifica che la Spagna si era faticosamente costruita in trent'anni».


Edgar e Alberto, 19 e 28 anni, con la maschera bianca degli Anonymous, «1.400 manifestazioni da inizio anno e non vogliono ascoltarci, dopo i tagli allo stato sociale verranno quelli alla libertà di espressione». Sheila Borreguero, 25 anni, disoccupata da uno, che di socialisti e popolari dice: «Sono cani diversi con lo stesso collare, quello della Merkel». Il 27 tocca ai taxisti, contro le liberalizzazioni. Il primo agosto nuova protesta generale. Izquierda Unida e le Comisiones Obreras, storico sindacato di resistenza al franchismo, e parte dell'Ugt vicino ai socialisti, chiedono un referendum contro la «frode elettorale» perpetrata da Rajoy presentandosi con un programma e attuandone un altro. Per il 25 settembre un volantino annuncia «l'occupazione del Congresso, per esigere le dimissioni del governo, nuove elezioni e l'apertura di una fase costituente». Il Congresso è già blindato: le strade di accesso sono chiuse, i bar in faccia semideserti.

Il senso di frustrazione e disorientamento, ricostruisce Enric Juliana, uno dei maggiori editorialisti spagnoli e vicedirettore de "La Vanguardia" (è suo il volume "La deriva della Spagna"), è quello di «un paese che per tre quarti del Novecento si è sentito ai margini della storia imbalsamato in una dittatura anacronistica, poi ha scoperto le libertà civili, il suo posto in Europa, un boom economico ininterrotto per 15 anni fino al 2007 quando ancora la crescita era al 3,7 per cento. Fino al tonfo del 2008, quando l'elica s'è messa a girare alla stessa velocità ma al contrario, e il Pil è finito sottozero».

Cos'hanno fatto allora i politici? «Hanno negato. Zapatero ci ha messo un anno a concedere, in un'intervista, "se proprio lei vuole usare il termine crisi...". Hanno anestetizzato la società: Rajoy per non allarmare perché sapeva di vincere le politiche 2011 e sperava di fare il bis in Andalusia nel marzo di quest'anno. Sì, il ruolo della politica è stato fondamentale nel provocare il disastro». Che arriva il 9 maggio con il crollo di Bankia, istituto di credito organicamente legato al Ppe. Repentino e inaspettato nonostante vi fossero tutti i segnali: fino ad allora non si ricorda un solo convegno di industriali o Camere di commercio sulla crisi incombente. E ora tutti a chiedersi: come abbiamo fatto a non capire, a non accorgerci? Alla bolla immobiliare è seguita quella finanziaria con la crisi americana fino a quella bancaria, con un'esposizione di 100 miliardi, solo 30 per ora coperti dalla Bce: bolle meno note, ma non meno devastanti sulle finanze pubbliche, quella delle tariffe elettriche, speculazione sulle energie alternative che promettevano 8 per cento di interessi ora insostenibili pari a un disavanzo per 30 miliardi nel solo settore elettrico; e quella degli armamenti, 30 miliardi per la politica di acquisti di fregate, aerei e tank che si trascina dall'epoca Aznar, il popolare prima di Zapatero.

Ma la crisi che le cifre raccontano la vedi per le strade. Una folla di "Compro oro", i più sudamericani, volantinano anche i bimbi e spingono i genitori nelle loro botteghe: raccontano che la gente vende oro a mezzo chilo alla volta, i gioielli di una vita, con le donne che piangono, per pagare il mutuo: i fortunati ai quali la casa non è ancora stata confiscata e messa all'asta. Piercing a 9 euro sulla Calle Carmen, perforazione inclusa, "promoción crisis". Rosa Clara sconta i suoi abiti da sposa. Roulette deserta in sala giochi sulla Arenal, va solo il Bingo «perché puoi scommettere anche 10 o 20 centesimi», ti spiega Juan che ci lavora.

La crisi è ovunque volti la testa. Ma il leit-motiv della protesta è: ci ingannano! «I soldi ci sono, ma li usano per sé, i loro amici e le banche», attaccano al banchetto delle Comisiones Obreras Victor Rodriguez, 41 anni, minatore di Teruel in sciopero da 55 giorni, e Angel Múnoa, segretario per la salute delle fabbriche di Madrid. Demagogia, rifiuto di guardare in faccia la realtà? «Vuole un esempio? Riducendo progressivamente gli aiuti da qui al 2018 come da accordo già firmato, salvare le miniere di carbone costa 196 milioni l'anno. Rajoy ha tagliato subito gli aiuti del 63 per cento, che significa 8 mila famiglie di lavoratori sul lastrico, 50 mila con l'indotto, la morte per i paesi che sulle miniere vivono. Però due giorni dopo il Congresso, con i voti bipartisan di Ppe e Psoe, ha regalato 276 milioni alle cinque società di gestione delle autostrade che s'irradiano da Madrid: tutte partecipate da banche vicine o ai popolari o ai socialisti...».

Dunque è vero, i soldi ci sono e se li intasca la politica per salvare se stessa? «Sì, il denaro c'è!», e stavolta a dichiararlo col punto esclamativo è, sul quotidiano in rete "El Plural", un economista emerito come Vicenç Navarro, ex-rettore a Barcellona, a capo di un network di accademici sullo stato sociale. Quello slogan poco elegante sulla pioggia? «Dice la verità, il governo non fa ciò che dovrebbe», riconosce Joaquín Trigo, direttore generale dell'Istituto di studi economici di Madrid, l'indipendente Iee. Ma che altro potrebbe fare? «Oh, cento cose. Emettere "bonos" volontari a 5 anni con interessi al 3-4 per cento, con i quali puoi però pagare tasse e debiti verso lo Stato; tassare le rendite degli stranieri che hanno case di proprietà in Spagna e le affittano; tassare le aziende spagnole con sede a Gibilterra anche se la rocca non è riconosciuta dalla Spagna...». La mannaia vera dovrebbe però abbattersi, secondo Trigo e molti con lui, sulle autonomie: «Dal distretto al governo centrale abbiamo sette livelli decisionali, ciascuno dei quali legifera e controlla. Sa quante pagine di leggi si producono ogni anno, comprese le direttive europee? Più di un milione! Sa quanto tempo è necessario per portare un cavallo da corsa da Girona al Portogallo? Sette giorni, perché ogni comunità autonoma che si attraversa fa la sua ispezione secondo le sue leggi diverse dalla vicina e con i suoi tariffari...»

Visto da Madrid, l'enorme potere delle 17 autonomie del paese (tre vere, Catalogna, Paese Basco, Galizia) sono il bubbone che trascina lo Stato centrale nel baratro. E la richiesta di "rescate", salvataggio, già avanzata da Valencia, Murcia e persino dall'orgogliosa Catalunya, probabile per altro quattro, suona come una campana a morto per l'attuale organizzazione dello Stato: «Eviteremo il salvataggio, in Spagna non arriveranno a controllare i nostri conti gli "hombres de negro"», i "men in black" della troika Fondo monetario-Unione europea-Banca centrale europea, ripete il ministro delle Finanze Cristobal Montoro, «ma è possibile che noi mandiamo i nostri "hombres de negro" nelle autonomie». Viste da Barcellona, le cose stanno all'opposto: lì monta l'ondata indipendentista, oltre il 50 per cento negli ultimi sondaggi. La crisi può fare da detonatore, la Spagna rischia di andare in frantumi, chi va in vacanza all'estero si sente come quei cosmonauti che partirono dall'Unione Sovietica e al ritorno l'Urss era sparita.

Il dato immediato è la confusione che ormai regna nel governo: prova ne sia il giallo dell'appello perché l'Unione europea proceda con il fondo salva-Stati, steso dagli spagnoli e smentito da francesi e italiani. Ma il dato profondo è il fallimento, morale oltre che di cifre, di un'intera dirigenza politica ed economica. Sembra di nuovo, all'improvviso, la "Spagna invertebrata" stigmatizzata da Ortega y Gasset, segnata dall'assenza di una classe dirigente degna e per questo riconosciuta dalle masse. Certo, Ortega era un conservatore, parlava di élite, scriveva nel '22. Ma tanto più grave è, la mancanza di nerbo e di visione, in una democrazia giovane come questa.
In cima a Calle de Preciados un'anziana elegante violinista, i capelli impeccabilmente accrocchiati sulla nuca, suona "Non ho l'età" per qualche monetina dei turisti. Grande paese, dove la forma è sacra e con chiunque parli ti racconta nei dettagli un pezzo di storia patria, come quella violinista la Spagna è ora lì senz'altra visibile aspettativa se non che la signora Merkel apra la borsa.

L'edicola

La pace al ribasso può segnare la fine dell'Europa

Esclusa dai negoziati, per contare deve essere davvero un’Unione di Stati con una sola voce

Pubblicità