Salvatore Buzzi, tra i capi di Mafia Capitale, era il modello ?di rieducazione ?dei detenuti. Ma il suo arresto non può diventare il pretesto per cancellare il recupero dei reclusi

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Mafia Capitale, la recente inchiesta sulla cupola affaristico-mafiosa romana, fra i tanti effetti, rischia di produrre una prima vittima illustre: la rieducazione. L’arresto di Salvatore Buzzi, leader della cooperativa “29 giugno” ed emblema del bravo-detenuto-rieducato, ritenuto dagli inquirenti ai vertici di una cupola affaristico-mafiosa, è stato letto - anche in qualche atto giudiziario - come la prova provata del fallimento delle politiche di reinserimento sociale. Per quanto le statistiche sulla recidiva siano confortanti, e per quanto la realtà continui ad offrire quotidiani esempi di funzionamento della rieducazione, il colpo c’è stato, ed è stato duro.

[[ge:espresso:attualita:1.198066:article:https://espresso.repubblica.it/attualita/2015/02/04/news/carceri-per-i-detenuti-stranieri-e-ancora-piu-difficile-1.198066]]Chi nell’utopia della rieducazione ha creduto si sente tradito. Chi l’ha sempre disprezzata si rafforza nel disprezzo. E tuttavia, se si accantonano le reazioni a caldo e i pregiudizi ideologici, la vicenda romana può costituire un buon punto di partenza per un ragionamento lucido sulla pena. La filosofia della pena è illustrata, nel nostro sistema, dall’articolo 27 della Costituzione. Si punisce chi ha commesso un reato, perché ogni condotta contraria alla legge deve essere sanzionata.

La punizione del reo mira a scoraggiare altri dal seguirne l’esempio. La pena, però, oltre a non consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, deve “tendere alla rieducazione del condannato”. Il disegno dei Costituenti è quanto mai chiaro: dal momento stesso in cui viene pronunciata la condanna definitiva, da quel preciso momento, è fatto obbligo allo Stato e alle sue articolazioni di adoperarsi perché la pena non si esaurisca in un mero infruttuoso trascorrere del tempo, ma vengano offerte al condannato chances di rieducazione.

[[ge:espresso:attualita:1.193122:article:https://espresso.repubblica.it/attualita/2014/12/23/news/coop-in-carcere-l-eccellenza-a-rischio-1.193122]]Gli strumenti sono quelli classici: la cultura, l’istruzione, il lavoro. Per giunta, una serie di sentenze della Corte Costituzionale e della Cassazione hanno precisato, nel corso del tempo, come anche la misura della pena sia soggetta a questa natura composta, intessuta della punizione per il male fatto ma anche proiettata verso il recupero della persona condannata. In altri termini, il giudice, nello stabilire quanta galera deve farsi Tizio, ha l’obbligo di attestarsi sulla misura corretta per il caso concreto, evitando, da un lato, la cosiddetta “sentenza esemplare”, dall’altro l’impunità.

Perciò, l’espressione di uso corrente “certezza della pena” va intepretata in modo costituzionalmente corretto. Non significa che Tizio, una volta condannato, mettiamo, a vent’anni, se li fa tutti e buonanotte. Significa, al contrario, che nel corso di questi venti anni si lavorerà per il suo reinserimento: la buona condotta sarà remunerata con sconti di pena, avrà la possibilità di studiare e di lavorare all’esterno del carcere e di scontare parte della condanna in regime alternativo al carcere. Il che non equivale, appunto, a vanificare la condanna, ma ad eseguirla con modalità che antepongono il reinserimento alla pura e semplice segregazione.

Un disegno così vasto, ovviamente, contiene in sè una certa quota di rischio. Da un lato, l’offerta di rieducazione non è sempre di alta o accettabile qualità: per le condizioni ambientali di molte nostre carceri siamo stati ripetutamente sanzionati dalla Comunità Europea. Dall’altro lato, non tutti i condannati sono rieducabili. La domanda di fondo è connessa al grado di accettazione sociale di questo rischio: quanto crede, la nostra comunità, nella rieducazione? Pesano di più, e valgono di più, i tanti anonimi condannati che il carcere non peggiora, ma anzi migliora, o i pochi, e purtroppo eclatanti, casi di ricaduta? Vale ancora la pena di investire in rieducazione?

A giudicare da quanto si legge nella grande agorà mediatica, ormai imprescindibile sostituto di quello che un tempo fu il “Bar dello Sport”, a prevalere è, a schiacciante maggioranza, la voglia di forca. Per di più, non c’è gruppo, comunità, individuo che non rivendichi una sorta di “diritto naturale” al massimo della pena, ciascuno muovendo, ovviamente, dal proprio “particulare”, vissuto alla stregua di un’emergenza collettiva: a Tizio, che non mi ha fatto niente, hanno dato tanto, a Caio, che mi ha rubato in casa, pochissimo. È un’ingiustizia: per quanto mi riguarda, Tizio potevano lasciarlo perdere, per Caio, invece, l’ergastolo era appena sufficiente.

L’articolo 27 è roba dura da digerire perché intacca la natura stessa della pena. La pena in sè è un paradosso. Per la vittima non è mai abbastanza, per il carnefice lo è sempre troppo. Lasciata a sè stessa, senza controllo istituzionale, l’umanità concepirebbe unicamente la vendetta: come ha scritto Franco Cordero, “l’ordigno penalistico pubblico nasce dalle catarsi collettive. Dove non sia colpita l’intera comunità, sono sovrani gli interessati”. L’articolo 27 è l’approdo di un tragitto millenario che si propone di traghettare la pena dalla mistica cruenta del supplizio, attraverso un laico stumento di controllo sociale, sino all’utopia del reinserimento.

La comunità si sente colpita, e si impossessa del diritto di punire, privandone la vittima. La giustizia penale, in ultima analisi, serve proprio a questo: a fare da diaframma fra la giusta esigenza di risarcimento di chi ha subito un danno e il tentativo del colpevole di sottrarsi al meritato castigo. Se questo diaframma dovesse saltare, si tornerebbe inevitabilmente alla legge del taglione. Bisogna dunque mettere in conto indifferenza e persino ostilità, evitare di inseguire superficiali consensi momentanei. Lasciare libere le vittime, ad esempio, di provare risentimento senza violentarne i sentimenti: che tristezza quei microfoni sbattuti davanti al parente del morto con la domanda pressante, “hai perdonato? E quando perdoni? Ma ti vuoi decidere a perdonare o no?”.

È lo Stato a dover difendere la sua Costituzione. Anche a rischio dell’impopolarità. Sì, ma Buzzi? Beh, è come se un perverso sceneggiatore avesse riscritto “I Miserabili” cambiandone il finale. Nel capolavoro di Victor Hugo, il tetragono ispettore Javert dà per tutta la vita la caccia a Jean Valjean, forzato redento. Javert non crede nell’autenticità della redenzione, e spende ogni sua energia per dimostrarlo. Ma ha torto. Jean Valjean è veramente diventato un altro uomo: da criminale, s’è fatto pressoché santo. Un santo laico, soprattutto un uomo “cambiato”. Quando finalmente se ne rende conto, Javert abbandona Jean Valjean al suo destino, rinunciando a catturarlo. E, incapace di arrendersi al fallimento, si suicida. Ecco. Nella vicenda romana, è Javert a trionfare, e a Jean Valjean tocca la parte dell’eroe negativo. Ma l’originale è molto, molto migliore del suo triviale adattamento.