
Il colpo grosso su Telecom Italia, ceduta dalla premiata ditta “Colaninno & Gnutti capitani coraggiosi”, lo aveva da poco proiettato al vertice di un gruppo da 115 miliardi di euro. Questa almeno era la valutazione espressa dalla Borsa drogata di quei giorni.
Il mondo è molto cambiato, da allora. E anche Tronchetti si è ridimensionato. Una decrescita felice, la sua. Abbandonata Telecom nel 2007, adesso vende Pirelli ai cinesi, ma si tiene il comando. Un film già visto. Quello del capitalista senza capitali. Un manager che recita da padrone controllando, di suo, solo pochi punti percentuali del capitale dell’azienda che dirige. Il gioco di prestigio è riuscito alla grande negli anni dei patti di sindacato sponsorizzati da Mediobanca. E adesso che quel tipo di finanza è meritatamente finito nello sgabuzzino della storia, Tronchetti non passa la mano.
Resta alla guida, grazie ai soldi degli altri. Tutto cambia perché nulla cambi. L’ambizioso imprenditore che 13 anni fa minimizzava il suo ruolo parlando di «funzione manageriale» è riuscito, un’altra volta, a scegliersi un azionista che gli garantisce di continuare a comandare, con tutti gli onori e le prebende del caso. A cominciare da uno stipendio, 5,2 milioni nel 2013 (ultimo dato disponibile), che tra bonus e compensi vari si conferma ogni anno tra i più elevati tra i top manager italiani.
L’ultima curva di una carriera segnata da ribaltoni e inversioni di rotta, porta dritto nell’estremo Oriente, fino alla China Chemical Corporation (ChemChina), il colosso di Pechino destinato a prendere il controllo di Pirelli. Se tutto andrà come previsto, nell’arco di qualche mese i cinesi diventeranno gli azionisti di maggioranza della multinazionale del cinturato. Tronchetti, da parte sua, conserverà la poltrona di amministratore delegato, in qualità, come recitano i comunicati ufficiali, di «guida del team manageriale e garante della continuità della cultura aziendale».
DUBBI IN BORSA
L’assetto azionario del gruppo, riveduto e corretto per far posto al nuovo socio, si snoda attraverso una catena di holding. A giochi fatti, i cinesi avranno una quota che potrebbe arrivare al 65 per cento. I russi di Rosneft, entrati in Pirelli solo un anno fa come alleati strategici e ora relegati a un ruolo marginale, resteranno della partita con una partecipazione non superiore al 15 per cento. Infine, si arriva ai soci made in Italy, che dovrebbero avere il 20 per cento. La metà andrà alle banche azioniste, cioè Intesa e Unicredit. Il resto se lo spartiranno Tronchetti e le famiglie che lo affiancano nelle sue holding personali: supporter di lunga data, tipo i Moratti e gli Acutis della Vittoria Assicurazioni, e alleati più recenti, come i Rovati e Sigieri Diaz.
Fin qui gli invitati al gran ballo della Pirelli. Il quadro complessivo, però, resta quantomai incerto. Al momento, tra l’altro, non si conoscono neppure con precisione i patti statutari che regolano i rapporti tra i vari membri della futura compagine di maggioranza. Qualcuno, per esempio Rosneft, potrebbe avere la tentazione di sfilarsi dalla compagnia per monetizzare un investimento che non sembra aver dato i frutti sperati. Tanto più che il gigante petrolifero di Mosca deve fare i conti con uno scenario profondamente mutato nell’arco di pochi mesi, con le sanzioni occidentali al governo di Vladimir Putin, seguite alla guerra in Ucraina, che hanno mandato al tappeto la già fragile economia russa.
Un’altra incognita che pesa sull’operazione riguarda l’Offerta pubblica d’acquisto (Opa) che gli acquirenti cinesi hanno promesso di promuovere in Borsa nei prossimi mesi. Se una parte rilevante dei piccoli azionisti Pirelli deciderà di tenersi i propri titoli, allora la partecipazione dei grandi soci sul capitale complessivo finirà per diluirsi. In teoria, il blocco di controllo potrebbe anche arrivare a pesare meno del 51 per cento. E se la quotazione del gruppo presieduto da Tronchetti continuerà a viaggiare, come è successo finora, su valori ben superiori ai 15 euro del prezzo d’Opa, lo scenario appena descritto ha molte probabilità di avverarsi. A meno che, ovviamente, non venga rivista al rialzo l’offerta.
[[ge:espresso:plus:articoli:1.206107:article:https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2015/03/27/news/Marco-Tronchetti-Provera-vende-Pirelli-ma-comanda-lui-1.206107]]A ben guardare le grandi manovre sul titolo sono in corso da mesi. Il titolo Pirelli ha guadagnato oltre il 50 per cento dal novembre scorso. Merito dei buoni risultati di bilancio? Solo in minima parte, spiegano gli analisti. In realtà gli investitori internazionali avevano intuito da tempo che l’assetto azionario del gruppo lo esponeva a possibili scalate. La holding Camfin, a sua volta partecipata da Rosneft, banche e Tronchetti con gli alleati, custodisce una quota di Pirelli intorno al 26 per cento. Il resto del capitale è flottante sul mercato. Ecco perché in Borsa erano in molti a scommettere che presto o tardi qualcosa sarebbe successo. Non per niente, l’onda lunga del rialzo risale addirittura all’estate del 2013, quando scattò il liberi tutti tra i membri del patto di sindacato capitanato da Mediobanca e Assicurazioni Generali. Un patto, forte del 45 per cento del capitale, che fin lì aveva messo sotto chiave il controllo del gruppo garantendo il comando a Tronchetti
RICCHE PLUSVALENZE
È andata com’era prevedibile. Il compratore è infine arrivato. ChemChina è pronta a sborsare oltre 2 miliardi di euro. Solo che nel frattempo la quotazione è andata ai massimi. Quasi il doppio rispetto a due anni fa. Il 25 per ento in più rispetto al prezzo (12 euro) fissato l’estate scorsa, quando venne siglata l’alleanza con Rosneft. Come dire che i soci venditori verranno premiati da ricche plusvalenze. Va detto che i grandi azionisti si sono impegnati a reinvestire nella nuova holding di controllo di Pirelli parte di quanto incasseranno grazie all’offerta dei cinesi. Intanto, però, i russi guadagneranno oltre 100 milioni sui 550 a suo tempo investiti. Intesa e Unicredit si spartiranno profitti per una quarantina di milioni. E anche le holding di Tronchetti e alleati chiuderanno la partita con utili per decine di milioni.
Alla fine, secondo quanto annunciato nei giorni scorsi, Pirelli potrebbe essere ritirata dalla Borsa, ma questo potrà avvenire solo se i soci di minoranza consegneranno in massa le loro azioni. In caso contrario i titoli dell’azienda milanese, una delle vecchie glorie di Piazza degli Affari, resteranno sul listino e i piani dei compratori potrebbero complicarsi. L’annunciata riorganizzazione societaria dovrebbe infatti rispettare gli stringenti obblighi di trasparenza previsti per le aziende quotate.
Questa trafila burocratica, nella migliore delle ipotesi, allungherebbe di molto i tempi (e i costi) previsti per varare la nuova Pirelli. I cinesi, infatti, puntano a separare dal resto del gruppo italiano la divisione “truck”, quella degli pneumatici per camion, per poi unirla alla controllata di ChemChina nello stesso settore. Il segmento delle attività cosiddette “premium”, quelle che garantiscono la redditività maggiore, acquisterebbero così una loro autonomia e potrebbero essere quotate in Borsa in un secondo tempo. Sarebbe questo, in estrema sintesi, il contenuto industriale dell’intesa. Spezzare in due il business tradizionale del gruppo estraendo il massimo del valore da ciascuna delle parti.
Tutto questo grazie alle nozze con un alleato dalle spalle forti capace, tra l’altro, di garantire a Pirelli l’accesso a un mercato sterminato come quello asiatico.
«Ma testa e cuore resteranno in Italia», assicura Tronchetti dalle colonne del “Corriere delle Sera”. È la risposta a chi lo accusa di aver svenduto allo straniero uno dei grandi marchi dell’industria italiana. Col tempo si capirà se questo impegno verrà mantenuto. I precedenti, però, non sembrano granché incoraggianti.
Un accordo tira l’altro per tre volte negli ultimi cinque anni, il gran capo di pirelli ha infatti annunciato al mondo alleanze strategiche destinate in breve a rompersi tra liti e incomprensioni..
Si comincia con i Malacalza, la famiglia con base a Genova che nel 2009 si porta in dote 100 milioni di euro per puntellare le società personali di Tronchetti, perennemente a corto di liquidità. Ben presto, però, i nuovi investitori entrano in rotta di collisione con il socio. Servono altri soldi freschi da destinare alla holding Camfin e i Malacalza sono pronti a metter mano al portafoglio per fare la loro parte in un aumento di capitale. Il leader del gruppo invece no. La sua proposta è quella di varare un prestito obbligazionario convertibile in azioni Pirelli. Le banche, a caccia di commissioni, sponsorizzano quest’ultima soluzione.
Lo scontro diventa di pubblico dominio nell’estate del 2012, tra dossier anonimi recapitati alla stampa e minacce di azioni legali. Alla fine si arriva davvero in tribunale, ma le vertenze arrivano presto al capolinea. Tronchetti, che non può permettersi di ricomprare le azioni dei Malacalza, riesce a trovare chi apre il portafoglio al posto suo. Scende in campo il fondo Clessidra, pronto a comprare una quota Camfin. Anche Intesa e Unicredit ci mettono del loro.
L’accordo si chiude a giugno del 2013. I tre investitori finanziari sborsano complessivamente 300 milioni. Tronchetti si impegna fino a 30 milioni: massimo risultato con il minimo sforzo. Il presidente resta al suo posto e sui giornali, a quei tempi, va di moda il new look di Pirelli.
UNA STRANA PUBLIC COMPANY
na volta accantonato l’incidente di percorso con i Malacalza, l’azienda milanese viene descritta come «una public company proiettata sui mercati internazionali». Strana public company. Nel giro di un anno cambiano di nuovo gli assetti di controllo, ma l’operazione non passa dal mercato. A gestire l’operazione, tanto per cambiare, sono i soliti noti, cioè Tronchetti e le banche, che ci mettono i soldi.
Siamo nel’estate del 2014 e questa volta tocca ai russi. Rosneft compra il 50 per cento della holding Camfin e liquida il fondo Clessidra. Intesa e Unicredit vendono una parte delle loro azioni (con 100 milioni di profitti complessivi) e già che ci sono allargano ancora i cordoni della borsa finanziando un’altra volta la stessa Camfin, assediata dai debiti.
L’alleanza strategica con il nuovo partner, destinata secondo gli accordi a durare almeno cinque anni, si è in realtà arenata dopo pochi mesi. Nell’ottobre scorso i rappresentanti di ChemChina erano già al tavolo con gli italiani per discutere i termini dell’operazione annunciata nei giorni scorsi. Altro giro, altra corsa. Pirelli cambia rotta un’altra volta ma Tronchetti resta al timone. Gli impegni sottoscritti dai cinesi gli assegnano il ruolo di amministratore delegato fino al 2021. A quell’epoca il leader del gruppo avrà 73 anni e potrebbe pensare a ritirarsi. Se nel frattempo, grazie all’ennesimo ribaltone, non avrà cambiato un’altra volta le carte in tavola.