L’antico gioco come metafora della vita, per riprenderci la libertà. Lontani dalla schiavitù del denaro

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Il tempo libero è quello in cui non ci si aliena per vivere. Il tempo libero è quello in cui non si lavora. Il tempo libero è, quindi, quello del gioco. Oggi non esiste più, il tempo libero, perché è finito il lavoro in senso tradizionale, cioè retribuito in modo sensato: se esiste, ne è una corrotta parodia. Ciò, ovviamente, non riguarda quei pochi privilegiati che pur facendo parte di un sistema già collassato costituiscono una ristretta élite di sopravvissuti disposti a tutto per mantenere il loro fragile primato. Leggende come l’occupazione a tempo pieno e indeterminato sono gli autentici spettri che si aggirano per l’Europa (per citare quello che è stato il più grande filosofo dell’economia di tutti i tempi, oggi dimenticato, e chissà perché). L’Europa è il continente che sta facendo da cavia per creare un pianeta dominato da poche famiglie di ricchissimi. Ma quello che sta succedendo all’Europa è sintomo di un disagio terminale che percepiamo tutti. A qualunque latitudine e longitudine. Fatti salvi, ovviamente, i privilegiati di cui sopra ma anche la massa di chi, come un esercito di marionette, si fa muovere su uno scenario ormai svanito. È anche questo un gioco, ma di burattini che non sono consapevoli di cosa stanno mettendo in scena, e di quale la scena sia possono intuire qualcosa, ma se la nascondono per paura o per ormai acquisita perdita di coscienza. Automi e robot umani ma innanzitutto marionette.

Chi comanda e muove i fili è assolutamente soddisfatto di questo e si diverte, anche se comincia ad avere paura perché qualcosa, nel cervello delle marionette, sta incominciando a muoversi. Ed è l’istinto di sopravvivenza. Si tratta allora di togliersi i fili e incominciare a giocare a quello che ci piace. In realtà, i fili sono fatti in buona parte dalle nostre paure. Le paure di perdere quello che non abbiamo già più. E quindi in realtà è già tutto un gioco, ma un gioco spaventoso e privo di senso. All’interno di questo gioco, che potremmo chiamare il nuovo sistema mondiale, una sorta di parodia triste del film Matrix, dove nessun Eletto è previsto, ci sono, appunto, i giochi. Giochi di Stato, capillarmente distribuiti sul territorio nazionale per rendere le marionette di cui sopra (e quindi noi tutti cittadini, in particolare i più deboli e i più spaventati, pure fonti di guadagno. Il fenomeno della ludopatia sta dilagando e facendo strage di vite ma certo nessuno si sogna, come è successo in modo subdolo per le sigarette, di mettere sulle macchinette mangiasoldi o sui “gratta e vinci” immagini shock delle conseguenze del gioco compulsivo finalizzato al sogno del guadagno.

Ecco allora, dopo questa lunga ma necessaria introduzione: la mia proposta. Sbarazzarci in qualunque modo e il più presto possibile degli agghiaccianti e pericolosissimi “giochi” finalizzati alla vincita di soldi che spopolano in tutti i bar e nei terrificanti antri danteschi che sono le sale gioco odierne e tornare a una vera cultura del gioco come intrattenimento che valga al contempo come esperienza formativa. Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale. Un salto indietro nel tempo. A quando il gioco era intreccio di intrattenimento, percorso sapienziale, intreccio di archetipi. Il contesto a cui riferirsi non può che essere quello rinascimentale. Prendiamo per esempio il Gioco dell’Oca. Esiste ancora oggi, svuotato di buona parte delle sue valenze originarie, dei suoi significati, ma esiste ancora. Il gioco dell’oca, o “Dilettevole giuoco dell’Ocha”, come risulta dai primi documenti che ne trattano, era concepito come una metafora della vita umana. Con forte valenza esoterica e simbolica, non a caso, richiamandosi a Pitagora, le caselle erano sessantatré, ovverossia sette per nove, cifra che indicava il compimento “perfetto” del percorso della vita. E la posizione di ciascuna casella raffigurante l’oca, che è al contempo l’anima del giocatore, il suo doppio ludico che in quel momento sta giocando e raffigurazione della condizione umana tutta, non è mai causale ma indica le “tappe” della vita, gli snodi e i momenti cruciali in cui si forma il carattere di una persona attraverso quell’idea di viaggio che Dante, imbevutosi alle stesse fonte letterarie, svolge nel modo più potente attraverso la sua Divina Commedia.

Le cose che potremmo dire sul Gioco dell’oca, entrando nel dettaglio, sono innumerevoli ma basti sapere che nulla, nel tabellone classico, è “a caso”. Il caso, l’imprevisto, è dato dall’elemento aleatorio del lancio dei dadi, che pure corrisponde a una combinazione di probabilità statistiche molto limitate (e quindi, in qualche modo, senza perdere l’elemento di sorpresa, “gestibili”, e godibili). Ecco che un ormai negletto gioco da tavola si rivela in tutto il suo splendore e diventa simbolo alla portata di tutti di quanto il gioco possa essere sano e educativo. E dunque l’esatto contrario del rimbambirsi sperando di vincere soldi con sistemi drogastici gestiti dallo Stato e che di “giocoso” non hanno proprio nulla. Torniamo a giocare davvero. Per il gusto di farlo e per la ricchezza interiore (reale, umana, e non allucinata, finalizzata a un guadagno che non ci sarà) che il gioco, anch’esso liberato dalle tenaglie della paura e del ricatto economico, ci dà. L’oca ha tanto da insegnarci. E il suo gioco, dimenticato o quasi da secoli, è uno scrigno di bellezza e verità. Quello che oggi abbiamo con sempre più urgenza bisogno di riaprire, e che in fondo abbiamo già a portata di mano. Basta un cambio di logica. Basta decidere di giocare noi e di non lasciare che altri non vivano al posto nostro usandoci come riserva d’energia. Come in Matrix, appunto.