Se la ripresa non ingrana sono le banche centrali che devono fare di più o tocca ai governi?

Janet Yellen con Mario Draghi
Negli Usa se ne parla da settimane e senza tabù: gli strumenti usati finora dalla Federal Reserve per guidare l'economia non sono più adeguati nell'era dei tassi prossimi allo zero. E tanto meno lo sarebbero in caso di una nuova emergenza globale. 

A lanciare il dibattito, ai primi di agosto, è stato l'ex presidente della Fed Ben Bernanke nel sito della Brookings Institution: la Fed (come pure molti economisti), dà del Pil, della disoccupazione, e del tasso di crescita a lungo termine (cioè delle tre variabili base da monitorare per decidere se variare o meno il costo del denaro) una stima sempre più ridotta. Le previsioni insomma sulla performance economica si sono fatte sempre più prudenti, abbandonando per strada l'idea ottimistica di un paese con la recessione davvero alle spalle. Dopo aver speso trilioni di dollari per innaffiare i mercati, e inaugurato l'era dei tassi al minimo, la ripresa americana resta debole. La crescita Usa dovrà accontentarsi del 2 per cento, e questo forse potrebbe essere il suo “new normal”. 

Stessa situazione in Europa, dove la Bce combatte contro un'inflazione che si aggira sullo zero virgola e non accenna a salire, ha spinto inutilmente i tassi in territorio negativo (danneggiando i bilanci delle banche) e assiste a una crescita che procede a fatica e non permette a molti paesi, Italia in primo luogo, di tornare ai livelli ante-crisi. Questo, nonostante il bazooka del Quantitative easing intrapreso da Francoforte sia ormai in azione da oltre un anno. 

Anche nel Vecchio continente si sta quindi mettendo sotto esame l'efficacia della Banca Centrale, e la domanda chiave è: i criteri di condotta che hanno guidato finora il comportamento della Bce, costruita fin dall'inizio sul modello della Bundesbank e del suo mantra, cioè la guerra all'inflazione, può dirsi ancora valido? O non è il caso di rivedere gli strumenti di cui dispone per procedere?

Per non rimanere impantanate nel “new mediocre”, come Christine Lagarde, presidente della Fondo monetario internazionale, ha definito le economie occidentali, si devono adottare nuovi strumenti d'azione. Certamente politici, attraverso le riforme da affrontare, ma anche facendo sì che nuovi strumenti “non ortodossi” siano in mano alle banche centrali. Che l'ortodossia hanno dimostrato di saperla abbandonare, come è stato nel caso del Qe. Ma adesso, quali altri passi fuori dall'ortodossia potrebbero fare Mario Draghi e Janet Yellen? 

Il cuore del problema è che nel quadro attuale, con i tassi già ridotti al minimo, e con un valore limite dell'inflazione al 2 per cento, lo spazio di manovra dei banchieri centrali è troppo risicato, e neanche muovere i tassi – che è l'arma principale delle banche centrali - riuscirebbe a ottenere risultati. Tantomeno di fronte a una nuova crisi, che molti ritengono possibile. L'ex segretario al Tesoro sotto Clinton Lawrence Summers, per esempio, sostiene che la probabilità di una nuova recessione entro i prossimi tre anni sia del 50 per cento. Cioè alta.

Come reagire, dunque, a quali strumenti fare ricorso? Il presidente della Fed di San Francisco John Williams ha sostenuto che vada alzato oltre il 2 per cento il target dell'inflazione, per consentire più libertà di manovra in caso di necessità, quello di St Louis James Bullard ha annunciato che la Fed debba abbracciare una “nuova narrativa” come bussola delle sue azioni future, consistente soprattutto nel fatto che le sue previsioni economiche non possono andare oltre i due anni e mezzo, durante i quali la crescita resterà lenta e i tassi pure, ma che dopo è buio pesto. Il dibattito è talmente montato, soprattutto nel meeting di Jackson Hole di fine agosto, che per far tacere il chiacchiericcio sulle munizioni della Fed, la Yellen ha garantito che alla bisogna, usando altro QE e la sua forward guidance (cioè la strategia di annunci e di previsioni su indicatori economici al mercato che mirano a condizionarlo nel senso voluto), ne ha in avanzo per affrontare qualsiasi avversità.

Ma c'è chi dubita che sia davvero così. E che la politica monetaria, quella a cui ci siamo affidati finora, non sia più la bacchetta magica che rimette le cose a posto. Le banche centrali, insomma, non possono fare tutto da sole. Non possono più essere, come ha scritto il capo economista di Allianz, El-Erian “l'unico gioco in città”. A muoversi ora devono essere i governi, abbracciando una volta per tutte una politica fiscale anticiclica. Cioè tagli alle tasse e investimenti. 

In un paper di Chatham House – il prestigioso think tank britannico sugli affari internazionali - firmato da Matthew Oxenford, si sostene che a quarant'anni dalla fine di Bretton Woods i tempi siano maturi per un nuovo quadro di regole che garantisca sempre alle banche centrali – sia negli Usa che in Europa – la loro indipendenza, che anzi la rafforzi in vista del ruolo sempre più articolato che hanno come cani da guardia della stabilità finanziaria, ma che metta anche sul tavolo della loro azione non più solo il tasso di inflazione ma anche la crescita. Anche, se necessario, con il discusso “helicopter money”. 

Questa ricetta, però, può essere declinata in molti modi: non è solo dare assegni diretti alle famiglie, ma può essere anche un rafforzamento del welfare per le fasce più deboli, rassicurandoli sul loro futuro e sulla loro capacità di spesa. Un'azione che però sono i governi, non le banche, a dover mettere in atto. Sta ai governi insomma, cominciare a fare la loro parte, come ha fatto capire Mario Draghi in più di una occasione.

È, la crescita, quanto hanno chiesto i gruppi di attivisti di “Fed up” (traduzione: essere stufi) negli Usa, protestando per il lavoro e il livello delle paghe persino fuori dei cancelli del resort di Jackson Hole dove si riuniva la classe dirigente del mondo. In Europa i “fed up”, cioè gli stufi, portano i loro voti ai partiti populisti. Forse è troppo attendersi che l'argine lo costruiscano, tutto da soli, sempre Draghi o la Yellen.