Tutto è bianco, spuntano i fusti alti dei larici e dei cembri. Sui canaloni c’è chi scia per volute eleganti, chi per linee rette a rompicollo. Al margine, a tutt’altra velocità o lentezza, nella radura scoscesa del bosco, due tre puntini solitari a fatica prendono la montagna a piedi. Sono africani.
La via del Colle della Scala, che da Bardonecchia sconfina su Nevache; la via del Colle di Monginevro che, degradando come il passo, da Claviere ridiscende in Francia: è il valico tra la val di Susa e la francese valle della Durance. Da qui Annibale condusse gli elefanti verso Roma. Da qui passavamo noi italiani per sconfinare illegalmente in Francia, nel secondo Dopoguerra, come racconta “Il cammino della speranza” di Pietro Germi, che nel 1951 vinse l’Orso d’argento a Berlino. Ironia della sorte, oggi da Berlino le vicende di Rosa e Barbara, di Luca e di Vanni difficilmente verrebbero premiate per un film sull’emigrazione. A una vallata è rimasto attaccato il nostro nome: “Valle delle arance”. I siciliani ne mangiavano e ne lasciavano cadere le bucce. Sono qui con Carlotta Sami e Giulia Foghin di Unhcr per ripercorrere i nuovi cammini della speranza.
Giacconi e bevande calde
Ci deve essere una legge fisiologica che bilancia le ingiustizie dei governi con la solidarietà delle comunità, se tra queste montagne, tra chi cerca un futuro in Francia a morire sono in pochissimi. Si è attivata una rete, capitanata da Bardonecchia, in queste comunità alpine votate al turismo, la chiamano rete dei comuni solidali, “Ricosol”, e non consente di morire. È una barista a confidarmelo. «Alcuni di noi, qui, prima magari non avevano neanche mai visto un ragazzo di colore. Ma che differenza fa? Non ci impedisce di accoglierli nelle nostre case, di dar loro giacche e bevande calde. Il “lipton”, come chiamano il tè. Siamo gente di montagna, conosciamo l’importanza del fuoco. Compriamo sim per farli chiamare a casa, usano il nostro wifi.». Nessuno, in questi paesi, mai nessuno ha avuto da ridire contro questi ragazzi neri che arrivano, più di 4.000 l’anno scorso, e vogliono scalare le Alpi. Al contrario, qui si fa di tutto perché nessuno muoia: dal salvataggio alpino in altura al primo soccorso con la Croce rossa a valle; dai salesiani che accolgono all’assistenza legale, con l’Asgi, ai migranti. È questa rete che, come avviene nei porti di sbarco, mette un freno all’inumanità.
Il decreto Salvini sull’immigrazione, eliminando la protezione umanitaria, secondo l’Ispi entro il 2020 genererà 70 mila irregolari in più. Per la Ricosol ci sarà da lavorare. Chi fino a ieri aveva diritto a una protezione non l’avrà più: irregolare. Gli sgomberi dei centri d’accoglienza sono già iniziati, la produzione di illegali ai margini delle strade. Nel 2020 per l’Ispi saranno 670 mila. Più del doppio dei 300 mila di cinque anni fa. Esiste strategia politicamente più diabolica della costante alimentazione di un problema di cui ci si propone come soluzione, anziché volerlo risolvere? Gli irregolari sono consensi viventi. Risolvere il problema significherebbe non avere politicamente più senso di esistere.
In più, la linea dura del governo italiano via mare conduce i paesi confinanti, per prima la Francia, a chiudere le frontiere via terra. Non si passa più. Alla forza dei governi si risponde con la forza. Ma in Italia non ci vuole rimanere quasi più nessuno. Chi arriva sogna la Francia, l’Inghilterra. Come siamo tornati a fare noi italiani, emigrati in 200 mila l’anno scorso: l’invasione siamo noi. Così, molti di quei 70 mila irregolari generati da una legge, saranno costretti a vivere per strada finché, quando sarà troppo, si avventureranno tra le montagne, senza averne mai vista una, senza conoscere l’effetto paralizzante del freddo vero.
Alla forza dei governi si risponde con la forza, è vero. Ma come ogni forma senza sostanza, questa forza si applica sui deboli, provando la sua codardia. Per esempio siglando accordi miliardari con violente dittature per impedire le partenze, come avvenuto in Libia. Dove si detiene, si tortura, si ammazza, pur di non lasciar partire. Come segnala il nuovo report di Unhcr, “Desperate journeys 2018”, il numero degli sbarchi è sì diminuito, ma è drasticamente aumentato il numero di morti tra chi comunque parte, da quando il Mediterraneo è stato ripulito dalle ong che salvavano in mare, a seguito di indagini di un pubblico ministero, Carmelo Zuccaro, che si sono rivelate infondate ma sono state pompate a reti unificate fino a convincere le persone del falso. È sulla pelle dei vulnerabili che gli Stati membri dell’Unione europea cercano di ridisegnare una nuova storia per il vecchio continente. Di forzare una riscrittura dei trattati internazionali, attraverso la loro trasgressione. Così, dopo il primo scandalo di civiltà della nave Aquarius che non trovava approdo in nessun porto sicuro, nessun migrante può più passare da Ventimiglia. La rotta si è nascosta tra i boschi, si è traslata a nord.
Ad affrontare il ghiaccio
Attorno alla stazione di Torino Porta Nuova, dove aspettano di partire i pochi vagoni regionali che conducono a Bardonecchia, lavora l’associazione Mosaico, coordinata da Unhcr. Li vedi. Di solito sono giovani o molto giovani, molti minorenni; impazienti, si guardano attorno, sono poco equipaggiati per la montagna. Tra di loro parlano poco, quando lo fanno è velocemente, a scatti; con gli altri passanti non parlano mai. Yakoub, un mediatore sudanese in Italia da molti anni, mi spiega che in tre mesi hanno incontrato 150 ragazzi pronti a salire sui treni. Chi è pronto a partire è sospettoso. «Non vogliono essere avvicinati, non vogliono essere distolti. Quello che noi facciamo, al contrario, è metterli in guardia dai rischi della montagna». Mi mostra un piccolo zaino che lasciano a ogni ragazzo: coperta termica, mappa della zona e volantino di istruzioni con tutto ciò che non si deve fare in montagna. «Non conoscono la neve, non l’hanno mai vista».
Quindici gradi sotto zero
Prendiamo un’auto per Claviere, a quasi 2.000 metri di altezza. Lungo la strada, nell’ampia valle, le montagne sovrastano l’orizzonte. Poi l’autostrada e la ferrovia del Frejus si allontanano verso ovest, e con una dolce salita raggiungiamo il borgo basso di Oulx. Un ponte di legno, una fontana di pietra, un campanile. Da lì seguiamo per Claviere. Ormai è notte, ma il contrafforte montuoso che sbarra la valle si innalza, nero e tremendo. Il termometro segna 8 gradi sotto zero.
Claviere è una lingua di montagna che si insinua nella Francia: il punto più vicino per sconfinare. A Oulx, i ragazzi che arrivano in treno da Torino si infilano sul primo bus per Claviere per provare la scalata. Sulla linea di confine ci sono le camionette della Polizia italiana. È a loro che la Gendarmerie francese consegna chi ha tentato l’arrampicata e ha fallito. Si chiama “restituzione”, per la legge europea che prende il nome dalla capitale irlandese. I francesi sono appostati con visori notturni, con droni, con cani, ventiquattro ore su ventiquattro.
Cercano migranti. La guerra, adesso, si fa ai confini. Non per estenderli, per presidiarli. È la stessa cosa avvenuta nel Mediterraneo dopo la chiusura della Libia, come segnala il report di Unhcr: ora si passa dalla Spagna. O, via terra, dalla Bosnia e dall’Erzegovina, non più dalla Bulgaria. Da quando la gendarmerie ha invaso il territorio italiano per una restituzione, le nostre forze dell’ordine pattugliano il confine. Assieme a loro c’è la Croce rossa italiana. Alcuni assunti, tantissimi volontari, quasi tutti giovanissimi, garantiscono il primo soccorso sette giorni su sette. È sulla linea di confine, penso, guardando una notte stellata come poche ne ho viste, con l’aria ghiacciata che fa lacrimare, che si gioca il gioco della vita. Da un lato chi in divisa ha il compito di imporre la forza ingiusta dei governi; dall’altro chi in silenzio si salva. Sento la fortuna di stare dal lato giusto. È il cielo che chiama una separazione.
Adesso è notte, la temperatura è quindici gradi sotto zero. Avviene la prima restituzione. I ragazzi sono quattro. Uno è in ipotermia acuta, viene soccorso. Gli altri tre tremano, sotto choc. Reggono il “refus d’entrée” tra le mani impazzite. Con loro salgo sul mezzo della Croce rossa, sui sedili posteriori. Si coprono i volti, si ripiegano su se stessi, infilano la testa tra le gambe. Domando i loro nomi, per rompere quel silenzio, ma non sentono, fingono. Non vogliono avere niente a che fare con me. Sono terrorizzati. Il più giovane, un ragazzo del Mali, dopo un po’ con un filo di voce chiede dove andiamo. Dobbiamo scendere a valle di una quindicina di chilometri, arrivare al centro d’accoglienza dei salesiani. Dice che vuole tornare a Perugia. Ha sedici anni, ha vissuto un anno e mezzo nel centro d’accoglienza di Perugia, sta ancora aspettando che la commissione territoriale si pronunci sul suo asilo. «Troppo tempo», dice, «devo lavorare». Poi, spaventato, ripete che tornerà a Perugia. Ha settantadue ore per rientrare. Poi, per la legge, sarà fuori per sempre. Il ragazzo al centro è silenzioso. Ha quindici anni, è del Burkina Faso, la sua richiesta d’asilo è stata rifiutata. Il terzo è un maliano, anche lui minorenne. Salvato in mare nel 2017, in Calabria è stato costretto a lasciare le impronte, ma non ha mai fatto richiesta di asilo. Voleva farla in Francia. Sono tre minorenni. Tutti e tre hanno il diritto di sconfinare. Ma la legge oggi è diventata discrezionale.
Nel fitto dei larici
La Francia trasgredisce forzatamente gli accordi: la Corte di Giustizia europea è intervenuta affermando che agli Stati membri è vietato operare verifiche di frontiera. Ma la guerra si gioca sempre sulla pelle dei vulnerabili, e dunque è sporca per natura: i minori respinti raccontano di documenti d’identità falsificati dalla gendarmerie per simulare la maggiore età; raccontano di suole di scarpe tagliate e di schede sim sequestrate; di detenzioni senza cibo né acqua; di falsificazione della volontà scritta di tornare indietro. Qualche giorno prima del nostro arrivo, tre minorenni come i tre che stanno tremando nel sedile davanti al mio sono stati individuati con gli infrarossi, mentre salivano il bosco, di notte, a meno venti. La polizia francese sguinzaglia i cani. Due vengono raggiunti, morsi, arrestati. Uno, da solo, riesce a scappare più in alto, tra il fitto dei larici. Per non farsi annusare né vedere, si sdraia e si ricopre di neve. Silenzio, finito. Rimane così finché non viene ritrovato dal soccorso alpino, con le luci della prima mattina. Ha sfiorato l’amputazione degli arti.
Finalmente arriviamo al centro dei salesiani, a Oulx. È un sollievo per tutti. La stanza è grande, calda. Bevande bollenti, coperte di lana spessa. Potranno fare una doccia. Al piano superiore, ceneranno con una zuppa e con ciò che vorranno.
Poi incontro Razak, è l’unico che parla un italiano quasi perfetto. Mi sto girando una sigaretta col tabacco e lui me ne chiede una. Ha 47 anni, è tunisino di Qayrawan. È arrivato tre anni fa via terra, aveva paura del barcone. Egitto, Turchia, Grecia, poi su fino a Trieste. Lì viene identificato. Non fa richiesta d’asilo, scende invece in Sicilia a lavorare. Per due anni fa il bracciante a chiamata per tre euro l’ora, dieci ore al giorno, sette-dieci giorni al mese. Quei due-trecento euro non sono il motivo per cui è partito. È l’unico di cinque fratelli che non ha studiato, non se ne è mai pentito tanto. Gli altri sono sistemati. Razak no. Non è neanche sposato, non ha figli. «Sono vecchio», dice, e fa un tiro di tabacco. «In Italia non ci posso più stare. Non c’è più lavoro. Ho provato per un po’ a Napoli, a chiedere nei cantieri edili, nei campi. Sempre la stessa risposta: non c’è niente. Poi a Bologna. Alla fine a Genova, al porto mercantile, al porto turistico. Allora mi sono detto: la Francia. Anche se preferisco l’Italia», sorride. «Mi piace la gente, mi piace la cultura, la sento vicina a noi tunisini. È la geografia. Ma sono francofono. E tutti noi», fa segno dentro, a indicare gli altri ragazzi, «proveniamo da ex colonie francesi. La nostra destinazione naturale è lì».
Il confine tra giusto e legale
La mattina dopo torniamo a Claviere. Dal bus che arriva da Oulx scendono tre ragazzi di colore, giacche leggere e zaini. Ce n’è uno con una giacca militare e un cappello con i colori della bandiera italiana. Si guardano attorno per un attimo, poi si lanciano verso la pista da sci di fondo sotto la chiesa nella piccola piazza. Li seguiamo con lo sguardo ma sono più veloci, in un attimo si perdono tra i cembri.
La sera, alla stazione di Oulx, li ritroviamo. Quasi sdraiati sulle panche di legno della sala d’attesa, stremati. Respinti. Anche qui ci sono volontari a soccorrerli. “Pericolo”, dice un volantino informativo. Sono due ivoriani e un guineano. Camara ha sedici anni, è quello col cappello con i colori della bandiera italiana. Mi avvicino ai tre ragazzi. «Per forza i francesi non ti fanno entrare», sorrido e indico il cappello. I compagni scoppiano a ridere, lui all’inizio non capisce. Poi se lo cava, lo rigira. Dall’alta parte la lana è nera. Lo infila di nuovo. «Così sono pronto per domani!», adesso ride anche lui. Outtara, il suo compagno, è da quasi due anni in attesa della commissione territoriale di Milano che deciderà se concedergli l’asilo o meno. «Con la nuova legge ho paura di diventare irregolare», dice. «Voglio andare in Francia, a casa ho un figlio da mantenere. Non mi hanno neanche mai fatto un permesso di soggiorno.». Ha ragione. Il suo potrebbe essere uno dei casi di protezione umanitaria che l’Italia non assegnerà più. Qual è il confine tra ciò che è giusto e ciò che è legale? Lo chiedo a Camara. Lui mi guarda, scrolla la testa e si mette a ridere.