Lui è quello che è: credibile in tutto. Nella massa di capelli da principe berbero; nello sguardo docile e strafottente insieme; nelle labbra tumide e violacee; nelle mani da cantiere. Io lo so che subisco la maledizione di quella naturalità senza controllo e subisco il dolore di quel desiderio come un dente che sia necessario cavarsi immediatamente

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Dall’alto del suo metro e sessantacinque si guarda intorno e tutto sembra meraviglia, ma, allo stesso tempo, tutto sembra pericolo. Come un Paradiso e un Inferno messi insieme. Il Paradiso sta in quello sguardo prima che tutto accada; l’Inferno è nel tempo che si ferma, nel preciso ritorno all’estraneità, dopo, quando tutto è accaduto. Ora, che contemporaneamente si possano vivere due sentimenti così contrastanti è quello che rende desiderabile fare quel salto. Io dunque al tavolino a bere un aperitivo della casa, poco alcolico; lui in piedi ad appena tre, quattro passi, le natiche sode appoggiate allo spigolo del muretto.

Alle sue spalle le arcate della Stazione Termini. Io parlo e guardo verso di lui senza guardare: è il leader, i ragazzi che lo circondano sono pallide imitazioni di borgatari addobbati per la città. Ma lui no. Lui è quello che è: credibile in tutto. Nella massa di capelli da principe berbero; nello sguardo docile e strafottente insieme; nelle labbra tumide e violacee; nelle mani da cantiere; nelle cosce fasciate fino quasi ad annullare la stoffa; nel pacco in evidenza, ma senza ostentazione. Io lo so che subisco la maledizione di quella naturalità senza controllo e subisco il dolore di quel desiderio come un dente che sia necessario cavarsi immediatamente. Così mi alzo dal tavolino, faccio un cenno al cameriere per il conto, nel frattempo lo cerco nello spazio dietro di me, come se dovessi tenerlo attaccato ad un’inquadratura fiamminga.

Lui potrebbe essere un Antonello da Messina in acrilico e pantaloni a zampa d’elefante. Lui potrebbe essere un mercante napoletano sbarcato nelle Fiandre. Un Andreuccio ingenuo e furbo, fanciullo e uomo, pronto a ingannare ed essere ingannato. E tutto si gioca nelle traiettorie dello sguardo, perché, seppur senza una cultura, quel ragazzo ha una sapienza millenaria addosso e sa di sguardi più di me che li ho imparati sui libri. E sa di fisica. Di come un gesto appena accennato possa diventare una leva che fa sollevare il mondo. Io credo di avere in mano la chiave del suo interesse quando estraggo il portafogli per pagare l’aperitivo e, mentre lo faccio, volgarmente, come il peggiore dei mentecatti, lo guardo fisso. Ma lui non guarda verso di me, lui guarda la Lambretta, o il mangiadischi, o l’apparecchio televisivo che mi chiederà. Lui guarda le cinquecento e le mille e le cinquemila che sfilerà dalle tasche della mia giacca prima di tornarsene a casa senza nemmeno salutare. Salgo in macchina. Lui è ancora lì. Ora guarda l’Alfa. Accosto. Hai mangiato? Gli chiedo. Lui fa cenno di no con un sorriso che ammazza. Conosco un posto vicino alla Basilica di San Paolo, faccio io: Lui accenna che gli va. E nient’altro. Sali! Gli dico. E lui con un salto morbido di puma è già al mio fianco dentro l’abitacolo. Ha esattamente l’odore di sudore e saponetta che mi aspettavo avesse. Siede con le gambe larghe e le mani tra le cosce. Passano minuti interi senza una parola se non l’eloquenza imperiale del suo sguardo che sfida il paesaggio fuori dal parabrezza. Come ti chiami? Domando a un certo punto. Lui prende aria, e gonfia il petto fasciato, prima di rispondere. Pino, dice con una voce nuova nuova. Pino, ripeto io, hai fame Pino?