Fabrizio Gifuni: «Il Memoriale di Moro, testo di un'importanza capitale che nessuno ha letto»
L'attore porta in giro per l'Italia lo spettacolo tratto dagli scritti dello statista. «Quello che emerge è diverso dall’iconografia della vittima sacrificale. Sa che deve morire, ma svela una violenza inaudita. Eppure l'hanno affrontato solo un gruppo attento di storici, studiosi, giornalisti»
Chi c’era, chi ha visto, non dimentica. Al Teatro delle Briciole di Parma, al Teatro Valle Occupato di Roma, oppure al Salone del libro di Torino o in uno dei tanti luoghi in cui ha portato la sua “Autobiografia di una Nazione”. Così Fabrizio Gifuni ha definito il lungo viaggio, attraverso il teatro, in cui evocare in modo adamantino, netto, delle parole: che sono aguzze, taglienti come mai. Non testi teatrali, ma parole che arrivano da articoli, romanzi, lettere, memoriali.
Possono essere quelle civili di Pier Paolo Pasolini, per l’indimenticabile “’Na specie de cadavere lunghissimo”, che debuttò a Parma nel 2004, con la regia di Giuseppe Bartolucci. O le parole furiose, esplosive, incontenibili di Carlo Emilio Gadda, delle lettere dal fronte della Prima Guerra Mondiale o del caustico Eros e Priapo. Oppure ancora quelle di “Con il vostro irriverente silenzio”, ossia le parole del Memoriale di Aldo Moro che Gifuni ha fatto risuonare nell’enorme OGR di Torino, per il Salone del Libro, nell’anniversario della morte dello statista pugliese, e poi a Pordenone, e che adesso tornano al Teatro Vascello di Roma (dal 18 al 23 febbraio).
Il percorso di Gifuni è segnato dalla ricerca insaziabile di una prospettiva critica, lucida, tesa: quasi che il teatro, nella sua forma più alta, possa finalmente restituire alla Polis (a quell’enorme Polis di provincia che è l’Italia di oggi) un ragionamento complesso, articolato, approfondito. Non vi è pedanteria, né – tanto meno – quella mimesi interpretativa che pure va tanto di moda. Gifuni potrebbe agilmente “essere” Pasolini, Gadda o Moro – peraltro lo è stato, nel film di Marco Tullio Giordana, “Romanzo di una strage” – ma in questa “autobiografia” l’attore e drammaturgo si limita a farsi portavoce delle parole, a metterle a disposizione di chi ascolta, al centro di quella comunità che va ricomponendosi nello spazio teatrale.
E così pone in discussione il senso stesso di fare teatro. Non è solo “militanza”, non fa “teatro di narrazione” ma cerca e ottiene, con garbo e con arte, quella condivisione tragica, di comunità, che dà senso, ora e sempre, alla umanissima pratica teatrale: dunque, teatro al suo massimo livello, che lascia il segno. Allora, affrontando il Memoriale e le lettere di Moro, con la collaborazione di uno scrittore impegnato come Christian Raimo e la consulenza storica di Francesco Biscione e Miguel Gotor, ne esce un piccolo, potentissimo, rito laico.
Una festa della ragione, che non esclude il sentimento, l’emozione durante il quale lentamente dalla scena si stacca, si libra qualcosa – qualcuno – che tutto e tutti avvolge. Fabrizio Gifuni parla di “campo magnetico”. In una recente chiacchierata, ha spiegato: «Mi interessa il campo magnetico tra i corpi in scena e i corpi degli spettatori. Se manca o non si crea in quella sera, in quello spazio, lo spettatore dimenticherà inevitabilmente dopo qualche giorno. Il teatro ha i corpi, ha il rito: i teatri per me continuano a essere, dovrebbero essere, piazze aperte sulla città. Allora – si chiede Gifuni – vediamo che succede se facciamo un piccolo rito magico per cui tornano dei fantasmi, di Pasolini, di Gadda, di Camus, di Moro, a chiederci: che avete fatto? Che è successo? Avete sentito queste cose?».
Così risuona il Memoriale, quel testo sconvolgente “miracolosamente” ritrovato in via Monte Nevoso. «Ne emerge», dice Gifuni, «un Moro diverso dall’iconografia, che pure esiste, della vittima sacrificale. Sa che deve morire, ma svela una violenza inaudita, un arcobaleno di pulsioni umane. Ebbene, a parte un gruppo attento di storici, studiosi, giornalisti, quel testo di importanza capitale non lo ha letto nessuno. Si tratta allora di rimetter quegli scritti addosso al “fantasma” di Moro e condividerli con il pubblico. Non importa “come” lo fai, come lo interpreti. È un rito, è la tragedia».