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Attualità
novembre, 2010

Previti e il peso dei fatti

La Cassazione ha bocciato la causa intentata dall'ex ministro della Difesa ed ex parlamentare di Forza Italia contro L'espresso: "Le sue vicende giudiziarie erano gravi"

La sostanza conta più della forma. E di fronte al coinvolgimento di importanti figure politiche in pesanti scandali di collusione, il cavillo può passare in secondo piano. Per questo la Cassazione ha bocciato la causa intentata da Cesare Previti contro "L'espresso" tredici anni fa. L'ex ministro della Difesa ed ex parlamentare di Forza Italia, che ha perso il seggio alla Camera dopo la condanna definitiva all'interdizione perpetua dai pubblici uffici nel processo Imi-Sir, è stato implicato in vicende giudiziarie "così gravi" che non ha in alcun modo danneggiato la sua reputazione il fatto che, in un articolo comparso sul nostro settimanale nel 1997, sia stato indicato come "rinviato a giudizio" mentre era ancora solo "indagato".

La sentenza della Suprema corte introduce un principio importante, che va a pesare la realtà della situazione e in qualche maniera esprime anche una valutazione sull'operato della stampa alla luce dell'evoluzione dei fatti: perché quello che nel 1997 era solo un indagato, poi è stato effettivamente rinviato a giudizio, processato e condannato con sentenza definitiva. Oggi, dopo avere scontato una pena dorata tra il suo attico nel centro di Roma e i circoli esclusivi della capitale grazie al meccanismo dell'affidamento ai servizi sociali, l'ex braccio destro di Silvio Berlusconi si è allontanato dalla scena politica, anche se la scorsa estate una plateale visita del premier ne ha in qualche modo segnato la riabilitazione.

Ma la sentenza 23468 della Cassazione non si limita a giudicare quello che era già accaduto nel 1997, spingendosi nella valutazione di un eventuale danno ad esaminare la fine della storia: secondo i giudici, Previti non ha nulla di cui lamentarsi poiché "il giudizio negativo indotto nel lettore era conseguenza delle vicissitudini giudiziarie da tempo in corso a suo carico e non dell'inesattezza terminologica nella quale era incorso l'autore dell'articolo". In altre parole, spiega ancora la Cassazione, la gravità delle indagini alle quali era sottoposto Previti e gli elevati incarichi istituzionali rivestiti, non avrebbero evitato che anche '"se espresso in termini piu' precisi, il riferimento al parlamentare sarebbe stato lo stesso assai disdicevole".

Infine, i supremi giudici ritengono che Previti non abbia ricevuto nessuna lesione dell'onore dall'uso di altre espressioni contenute nell'articolo come ''politicamente morto'', ''rischia la galera'' e ''primo accusatore di Di Pietro''. D'altronde, il testo pubblicato tredici anni fa da "L'espresso" non era una cronaca giudiziaria, ma il capitolo di una rassegna di personaggi caduti in qualche modo nella polvere in quella stagione: da Michele Santoro a Irene Pivetti, da Pippo Baudo a Alba Parietti, da Ambra Angiolini a Leoluca Orlando, da Arrigo Sacchi ad Alessandra Mussolini.

Poche frasi, che descrivevano la situazione paradossale dell'indagato e ipotizzavano lo scenario che poi si è concretamente realizzato. "Pallone sgonfiato? Insomma. È un rinviato a giudizio per fatti gravi che riceve i giornalisti nella sua villa all'Argentario sorseggiando Taittinger brut sopra un gran mare dove beccheggia il celebre yacht "Barbarossa". Ad ogni modo: era l'avvocato principe di Berlusconi, il ministro della Difesa del suo governo, il primo accusatore di Di Pietro. Oggi, dopo il caso Squillante e soprattutto l'affare Imi-Sir, con la parcella da 67 miliardi pagata dalla famiglia Rovelli a Previti e altri due avvocati del Foro di Roma per corrompere i giudici, come sostiene l'accusa, politicamente è un uomo morto. E da cittadino rischia la galera".

Con la bocciatura del ricorso inoltrato in Cassazione, e firmato dalla figlia Carla Previti, anche lei avvocato, l'ex parlamentare e legale della Fininvest è stato condannato a pagare 3400 euro di spese di giustizia. Sia la Corte di Appello di Roma, che i giudici di primo grado, avevano già respinto la richiesta di risarcimento. E dopo tredici anni, almeno in questo caso, c'è stata una parola chiara sulla libertà di informare e fare critica.

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