Il cielo grigio di Milano annuncia una nottata di neve. Il tetto del dipartimento di Fisica è occupato da un plotone infreddolito di ricercatori di quelle facoltà scientifiche che una volta erano il motore e il vanto dell'azienda Italia. Lavorano nei laboratori del Politecnico, della Statale, della Bicocca e sono i primi a stupirsi di essersi improvvisati rivoltosi. Appollaiati sul cemento tra le tegole, si salutano, discutono, chiamano i colleghi, organizzano i turni di presidio. Dalle scale, trafelato, sale un tecnico di 43 anni, infagottato in giacca a vento e sciarpona di lana, che riassume sorridendo l'assurdità del caso: "Scusate il ritardo, mia figlia, tre anni e mezzo, non mi lasciava uscire. Mi chiedeva: "Papà, ma perché devi andare sul tetto?". Perché ci stanno distruggendo l'università. "E chi ve la distrugge?" Il governo, piccola mia, ma è una storia lunga da spiegare".
Ventenni e quarantenni. Precari e garantiti. Studenti e ricercatori, con la solidarietà di molti professori. Il no alla riforma Gelmini ha unito persone diversissime per età, reddito, cultura, opinioni politiche e posizione sociale. Per cercare un filo che annoda mille proteste, tra città bloccate e monumenti imbandierati, si può provare a partire da due luoghi simbolo come Milano e Bologna, dove tra il '68 e il '77 una generazione di studenti sfidò il potere sognando un futuro radioso. Oggi i ricercatori che salgono sui tetti hanno paura del futuro, come i ventenni che occupano le facoltà o i dottorandi che assediano le istituzioni. Incertezza, paura, instabilità sono le parole chiave che accomunano il ricercatore con il posto fisso, l'"assegnista" eterno precario, la ventenne che sembra pensare solo all'esame, il laureando che organizza occupazioni ma non crede più nella politica. Dal grande mosaico della protesta, ecco quattro identikit di un'Italia che ha perso la speranza.
Ricercatore, non prof
"Mi chiamo Marco Buscaglia, ho 37 anni e sono un "ricercatore confermato" di biofisica della facoltà di Medicina della Statale: insomma, ho il posto fisso e dovrei considerarmi un privilegiato". Invece è qui sul tetto di fianco al Politecnico di Milano, a difendersi dal gelo con sciarpetta e cappottino da prof. "Non siamo professori", spiega con pazienza. "Dovremmo insegnare solo volontariamente, ma in pratica se non facciamo lezione saltano i corsi; veniamo giudicati per le nostre ricerche, ma non abbiamo i soldi né gli strumenti per farle". Una vita sdoppiata, carica di delusioni che Marco condensa in poche cifre e in un confronto con la sua esperienza all'estero. "Mi sono laureato in ingegneria a 24 anni, a Pavia, dove ho superato il concorso per un dottorato di ricerca. Dopo un anno, ho finalmente iniziato a lavorare a 500 euro al mese. A quel punto ho vinto un bando negli Stati Uniti: tre anni bellissimi di ricerca a tempo pieno al National Institute of Health di Bethesda. Prendevo 3.500 dollari al mese. Ma il vero gap con l'Italia è la certezza dei fondi: lì ho sempre avuto tutti i soldi e le attrezzature che servivano ai miei studi di fisica applicata alle proteine".
Ma non è solo il divario di mezzi a condizionare la qualità della ricerca. "Nel 2003 ho vinto il concorso di fisica applicata alla Statale. Il governo però ha bloccato le assunzioni. E intanto io restavo in America, nella più completa incertezza. Ecco, qui il sentimento dominante è l'incertezza. Tornare in Italia è un rischio. Volevo sposarmi, ho dovuto rinviare anche il matrimonio. Conosco centinaia di ricercatori italiani che sono rimasti all'estero, attratti da paghe e strutture che da noi non esistono. Io invece ho voluto rientrare, con lo stesso slancio ingenuo che adesso mi spinge su questo tetto". E com'è finita? "Nel 2008 l'università mi ha confermato ricercatore a tempo indeterminato. Il massimo: tra vent'anni potrò guadagnare 2 mila euro al mese". Dagli Usa all'Italia, una carriera alla rovescia.
Precario e gratis
Sullo stesso tetto, il chimico Alessandro Caselli, cinque anni di ricerca pura a Losanna, spiega il malessere dei nostri laboratori con un esempio pratico: "In Svizzera, se dovevo riparare o modificare una strumentazione, ci mettevo un minuto, perché avevamo un'officina meccanica sotto l'università. In Italia basta un guasto a bloccare tutto per mesi. O per sempre. Qui è precaria l'infrastruttura della ricerca, anche per chi ha un contratto fisso". Donatella Sterpi, 43 anni, del laboratorio di ingegneria geotecnica del Politecnico, spiega che la rete dei ricercatori milanesi divulga da mesi studi e documenti sulle riforme che sarebbero davvero utili contro sprechi e burocrazie: "La frustrazione più grande è che il governo non vuole nemmeno ascoltare chi lavora nelle università. Ce lo pubblicate un dato? Abbiamo calcolato l'andamento tendenziale dei finanziamenti ai "progetti di ricerca d'interesse nazionale": nel 2014 si arriva a zero. Senza ricerca il nostro Paese non ha futuro". E il primo a sentirsi senza futuro è Daniele Zerla, 31 anni, nato in Val Camonica, ciuffo castano che copre gli occhiali: "Dopo la laurea in Ctf, chimica e tecnologia farmaceutiche, ho lavorato in laboratorio con un assegno di tipo B, che è scaduto in settembre. Già in luglio ho fatto il concorso per un tipo A, ma aspetto ancora la graduatoria degli scritti. Studiavamo catalizzatori di sintesi, l'idea era di spostarci sugli antitumorali. Non riesco a immaginare che sia tutto finito". E in attesa di sapere se la riforma gli ridarà un contratto a tempo, il giovane talento bresciano che fa? "Il laureato frequentante". Vale a dire? "Continuo a lavorare all'università gratis". Mai pensato di farsi assumere da un colosso dei farmaci? Daniele, timidissimo, quasi si vergogna a parlare di valori: "Finché posso, resto qui, perché sono appassionato di ricerca non finalizzata al profitto". Eccoli qui, i nemici della riforma Gelmini.
Datemi un domani
A Bologna, dove nel '77 si sognava l'immaginazione al potere, il cuore della protesta oggi batte in via Zamboni 38, "facoltà di lettere occupata". All'ingresso, una scritta enorme: "La vostra crisi non la paghiamo". Dentro, tra lenzuola colorate di slogan e adesivi "no Gelmini", la vetrata centrale si spalanca su un tranquillo professore che fa lezione in un'aula piena. Al primo piano tre studenti ripassano l'esame di storia moderna. Cecilia T., 20 anni, sciorina date e fatti da Cromwell agli Stuart, che gli amici Elena e Andrea verificano su un pachidermico blocco di appunti. "Perché ho scelto storia? Perché è una materia bellissima e molto sottovalutata". Che futuro sogna una ventenne di oggi? "Beh, siamo tutti sfiduciati, sappiamo che il mondo del lavoro è chiuso e che al precariato di oggi si sommerà quello di domani. Vorrei fare lo storico, il ricercatore o almeno l'insegnante come mia madre, ma so che le speranze sono minime. Quindi mi concentro sul presente. Letteratura, antropologia, storia: gli studi che mi appassionano. Per noi il futuro non esiste". Viso pulito, risata scintillante e pessimismo cosmico. Che ne pensi della riforma Gelmini? "Va buttata via tutta. Serve solo a distrarre l'opinione pubblica. Questo governo prende in giro la gente con slogan contraddittori: più ricerca e meno ricercatori, tempo pieno e maestra unica...". Per chi voterai? "Forse Vendola". Quindi voi tre siete occupanti? "No".
Occupo poi mi laureo
Per trovare i capifila dei cortei bolognesi basta entrare nell'aula del collettivo autonomo. Gli occupanti mandano avanti un portavoce, Niccolò Cuppini, 24 anni, laureando magistrale in Scienze politiche, capelli lunghi, occhi azzurri e carisma da nazareno. Si è fatto le ossa "con l'onda, nel 2008, ma ora siamo più consapevoli: la riforma Gelmini è l'elemento simbolico, il disagio è molto più profondo. Siamo la prima generazione precaria dalla culla alla pensione che non avremo". Soldi? "Lavoro nei bar, smonto palchi, prendo contratti a chiamata all'Ikea. Mi bastano 600 euro al mese, quando non ce la faccio torno dai miei. E questo mi rode". Progetti? "Imparo tante piccole nozioni, ma so che non c'è laurea o master che tenga: avremo comunque un futuro peggiore dei nostri padri".
Nel '77 a Bologna la protesta degenerò in lotta armata: qualche vecchio ve ne parla? Sguardo infastidito: "Abbiamo imparato la lezione della strategia della tensione. La P38 è solo uno spettro del passato, usato per impaurire chi contesta". Sognate un nuovo '68, magari insieme agli operai? La voce si abbassa: "Oggi è difficile pensare a un'azione collettiva. Nel lavoro non c'è solidarietà, c'è ricattabilità. Penso che la crisi non produrrà rabbia o violenza, ma depressione, isolamento, individualismo". Se cade il governo, andrai a votare? "No". Non credi proprio in nessuno? "Anche Vendola o Grillo hanno lo stesso vizio del berlusconismo: marketing politico. Datemi i voti che poi ci penso io. Guarda Obama: cosa è riuscito a cambiare? Dobbiamo trasformare il sistema dal basso, insieme, unendo movimenti e associazioni per creare una nuova economia e riprenderci il futuro. Per questo studio coperazione e sviluppo. E ora scusami, ho un'azione".
Il nazareno s'infila sotto i portici con una cinquantina di compagni. Parte un tam-tam su telefonini e computer. Il corteo, velocissimo, continua a ingrossarsi. Un sms annulla il primo obiettivo: "La Digos ha fermato tre dei nostri sotto la torre degli Asinelli". Nessun problema. Gli studenti deviano tra i vicoli e piombano di corsa nel palazzo comunale. Approfittando di una mostra, salgono in sala Ercole, spalancano le finestre su piazza Maggiore, srotolano due striscioni e accendono i fumogeni. Un coro ritmato amplifica gli slogan del megafono. "Se ci toccano il futuro, noi blocchiamo la città". Sul lenzuolo, in alto a sinistra, hanno disegnato il simbolo dei vecchi punk: no future.