Anno nuovo e nuovi aumenti, immancabili, per le autostrade italiane. Nonostante le molte proteste delle associazioni dei consumatori, ancora una volta, sono scattati i rincari; una media, secondo Anas, pari al 3,3 per cento, un valore superiore all'inflazione e con picchi ancora più alti: più 13,58 per Autovie venete; 14,5 per il raccordo della Val d'Aosta; 12,95 per la Novara Est-Milano e 12,38 per la Torino-Novara Est.
A più di dieci anni dalla liberalizzazione del settore, è evidente che, almeno per quanto riguarda le tariffe, non ci sono stati risparmi per i consumatori. A fronte di utili per 1.700 milioni per i gestori, che distribuiscono dividendi agli azionisti pari a ben 1.100 milioni di euro e pagano allo Stato un canone irrisorio: circa 52 milioni di euro.
Non a caso, nell'ultima relazione dell'Autorità per la concorrenza, si legge che, nel mercato delle concessioni, «non risulta praticabile una competizione nell'offerta dei servizi», ed è necessario «minimizzare gli oneri per lo Stato e la collettività».
La stessa pronuncia dell'Authority, d'altronde, segue le censure dell'Unione europea che ha più volte aperto delle procedure d'infrazione contro il nostro Paese per le distorsioni presenti nel mercato delle concessioni. Un mercato inefficiente, probabilmente, perché luogo di transazione di uno scambio politico perfezionato da Berlusconi all'epoca del caso Alitalia. Il governo in carica, infatti, riformò la così detta Convenzione Unica, secondo la citata relazione dell'Autorità, in modo da non consentire «di verificare gli incrementi di produttività ottenuti dal gestore nel periodo regolatorio, né di rivedere periodicamente le tariffe». In questo modo, prosegue il report, «gli incrementi di produttività non sono ridistribuiti agli utenti neppure in parte e si trasformano in rendite monopolistiche».
In pratica, i concessionari macinano “superprofitti”; cioè, grazie ai pedaggi, incassano di più di quanto dovrebbero, tartassando gli utenti.
La nuova convenzione, d'altronde, fu approvata con un emendamento del governo in occasione del salvataggio di Alitalia, e senza che ci fosse stato il controllo preventivo, come vuole la legge, del Cipe, della Corte dei Conti e del Nars (il Nucleo per l'attuazione e regolazione dei servizi di pubblica utilità). Anzi, il Nars aveva anche espresso, in altra sede, parere negativo. E, proprio nella cordata Cai figuravano alcuni fra i maggiori concessionari delle autostrade, come i gruppi Benetton e Toto.
Secondo Marco Ponti, docente di Economia dei trasporti al Politecnico di Milano e già consulente della Banca Mondiale, infatti, «l'operazione fu molto più politica che altro: i cosiddetti ‘capitani coraggiosi' misero pochi soldi in proporzione alle dimensioni del business autostradale; fu un ‘favore' al premier fatto in solido da Confindustria, che vide nella cordata un'occasione per stabilire buoni rapporti con il nuovo governo».
Sostiene Ponti che «la discutibile gestione precedente del settore aveva già fatto i suoi danni, al punto che le stesse autostrade dichiararono esplicitamente che avevano ottenuto più di quanto speravano“.
Ma com'è possibile che i concessionari guadagnino così tanto?
Tecnicamente, le autostrade sono un monopolio naturale e il prezzo non si determina in automatico con l'equilibrio fra domanda e offerta, ma dovrebbe essere fissato dallo Stato al fine di evitare rendite monopolistiche. Se il monopolio è pubblico, le rendite possono, in linea di principio, essere ridistribuite dallo Stato alla collettività. Ma quando l'oligopolio è in mano ai privati, questi ultimi ci guadagnano e a pagare sono i consumatori. Per evitare il superprofitti, infatti, si istituì un tetto massimo ai pedaggi, il price cap, salvo poi ritornare ad un altro sistema. Oggi, gli aumenti, spiega Ponti, «sono meccanici, legati all'inflazione; poi c'è una parte variabile, legata ai lavori. Questi lavori sono fatti in house, cioè senza gara pubblica, direttamente dall'Anas insieme ai concessionari; c'è un interesse sia dell'Anas che dei concessionari, quindi, a fare sempre lavori e lavoretti».
Ponti sottolinea che il sistema dovrebbe prevedere dei meccanismi automatici per evitare i comportamenti opportunistici, non affidarsi alla presunzione che gli attori siano dei “santi”. «Potrebbero essere lavori che servono o che servono solo a battere cassa e a legittimare l'aumento delle tariffe», conclude l'economista.
C'è un interesse, quindi, sia dei privati sia dello Stato a mantenere questa condizione di oligopolio collusivo per “tosare i contribuenti”. Per lo Stato, infatti, le tariffe autostradali funzionano come un'imposta occulta; così, si aumenta la pressione fiscale, senza la percezione di imporre nuove tasse.
Anas, infatti, rileva Ponti “vigila come concedente, ma come concessionario dovrebbe vigilare anche se stesso; questo suo ruolo di concessionario, poi, dovrebbe accrescersi molto con la progettata tariffazione di molte strade statali, o autostrade nel Mezzogiorno, oggi gratuite”.
«Il conflitto è vistoso: dato che Anas non può applicare ad altri concessionari regole diverse di quelle che applica alle proprie concessioni, quando mai potrà difendere gli utenti da rendite monopolistiche? Dovrebbe anche danneggiare se stessa». Impossibile.
Il gioco dei superprofitti, infatti, avviene con due meccanismi: svincolare l'aumento dei pedaggi dai lavori effettivamente realizzati, che rappresentano la giustificazione delle tariffe; sovradimensionare i costi dei lavori, che fanno insieme Anas e i concessionari, cioè controllore e controllato.
Secondo il nuovo sistema voluto da Berlusconi, con la legge 2/2009, infatti, i concessionari possono contrattare con Anas una formula semplificata del sistema di adeguamento annuale dei pedaggi, svincolata dall'esecuzione degli investimenti infrastrutturali. Il problema, quindi, non è che i pedaggi siano troppo esosi ma che i concessionari incassano troppo rispetto a quello che ridistribuiscono agli utenti.
Il sovradimensionamento dei costi, invece, avviene attraverso un escamotage che consente di bypassare la gara pubblica. I concessionari, infatti, fanno delle Ati, associazioni temporanee d'imprese, per fare i lavori infrastrutturali, insieme a Enti locali e all'Anas.
La presenza dell'Ente pubblico permette l'affidamento diretto dell'appalto. Senza gara aperta, infatti, è probabile che il costo del lavoro pubblico sia maggiore rispetto a quanto si determinerebbe in una condizione di mercato. Secondo la Segnalazione dell'Autorita? garante della concorrenza e del mercato e dell'Autorita? per la vigilanza sui lavori pubblici “AS336” della XIV legislatura, poi, “l'importo dei lavori riferibili a concessioni assentite senza ricorrere a procedura a evidenza pubblica ammonta a ben € 8,4 miliardi, pari quindi al 98 per cento del totale dei lavori riferibili ai concessionari”. Insomma, si parla di “liberalizzazioni”, ma del mercato non c'è neppure l'ombra.
L'istituzione dell'Ivca, l'ispettorato di vigilanza sulle concessioni autostradali all'interno di Anas, d'altronde, non è suffciente per garantire quella terzietà che dovrebbe contraddistinguere l'arbitro nei mercati artificiali. «La soluzione è istituire un'Autorità indipendente, chiosa Ponti -. Chi si occupa delle tariffe o valuta il rischio traffico, non può essere né il Cipe, formato dai ministri, né i ministeri». Il governo Berlusconi, d'altronde, ha nominato capo dell'Ivca Mauro Coletti, già presidente di una concessionaria, la Cal spa. Il mercato delle concessioni, infatti, si caratterizza per questo intricato gioco d'intrecci fra pubblico e privato e fra le proprietà dei concessionari. Sono sempre gli stessi manager, dunque, che siedono nei consigli di amministrazione.
Autostrade Lombarde, ad esempio, è partecipata da 5 province e tre comuni lombardi, insieme alla A2A, di proprietà dei comuni di Brescia e Milano e di Carlo Tassara, che è fra gli azionisti di Intesa Sanpaolo, insieme a Mediobanca e ai Benetton. Questi ultimi tre gruppi privati, d'altro canto, si ritrovano nella proprietà di un (potenziale) competitor di Autostrade Lombarde che è Autostrade spa, la prima concessionaria autostradale in Italia. Attraverso un complicato gioco di scatole cinesi, in Autostrade Spa troviamo Rcs, Caltagirone, Sole 24 ore e Pirelli. Nel cda di Atlantia, società riferibile ad Autostrade Spa, siedono anche Giuseppe Piaggio, consigliere di Impregilo, e Luisa Torchia; quest'ultima è anche consigliera dell'Acea di Caltagirone e della Cassa depositi e prestiti; per cui i finanziamenti ad Anas, elargiti dalla Cassa, dipendono anche da un soggetto che la stessa Anas dovrebbe controllare.
Il secondo maggiore concessionario, che dovrebbe fare concorrenza al primo, è la Sias, posseduto sempre da Generali e dagli eredi di Marcellino Gavio, anche loro nel capitale della Cai. Lo stesso Gavio, d'altronde, era socio di Benetton e Ligresti nella Igli, dalla quale dipende Impregilo. Carlo Toto, invece, cioè l'altro re delle strade, è in affari coi Benetton, nella Strada dei Parchi Spa. Nella concessionaria Asti-Cuneo c'è addirittura una partecipazione di Anas.
In Autovie Venete, infine, uno dei concessionari con gli aumenti più alti e una vecchia tendenza a ritardare i lavori, l'azionista di riferimento è addirittura pubblico: la Regione Friuli. Non mancano nella proprietà, comunque, una pletora di comuni e gli immancabili Benetton, attraverso Italcementi. Allora, conclude Ponti, «un monopolio naturale che genera ricchi e ingiustificati profitti danneggia gli utenti e la collettività, ma è straordinariamente gradito alla proprietà, anche se pubblica».
Ma almeno, con il federalismo delle infrastrutture, i disastrati enti locali potranno battere cassa e investire in spese sociali? Ponti: «Magari i comuni usassero quei profitti, indebitamente accaparrati, per far scuole e ospedali: ben se ne guardano. E certo non premono perché si costituisca un'autorità indipendente, che invece è l'unica speranza per gli utenti di non essere tosati come pecore».