E' il tre agosto del 2009. Nel tardo pomeriggio Grazia Serra raggiunge l'ospedale di Vallo della Lucania per vedere come sta suo zio, Franco Mastrogiovanni, ricoverato da tre giorni, per un trattamento sanitario obbligatorio, nel reparto di psichiatria. I medici le dicono che lo zio sta riposando, che sta bene, che sta ricevendo tutte le cure del caso e che non è opportuno che veda i familiari, perché ciò potrebbe turbarlo. Di lì a poche ore Mastogiovanni muore. Dopo un'interminabile agonia, fatta di contenzione e abbandono. Da allora Grazia è sempre stata in prima linea per chiedere "verità e giustizia per Franco", che è pure il nome del comitato formato da parenti e amici subito dopo i fatti di tre anni fa. Ora c'è una sentenza di primo grado che dice che i medici di quel reparto sono i responsabili della morte di Francesco Mastrogiovanni.
Giustizia è fatta, dunque?
«Sì, direi di sì. Perché un tribunale della repubblica italiana ha riconosciuto che mio zio, in un ospedale pubblico, è stato sequestrato. Che utilizzare la contenzione in quella maniera assurda che abbiamo visto tutti, grazie al video, è una cosa illegale. Questa sentenza ha ridato a mio zio un po' di quella dignità umana che era stata calpestata e umiliata dai sanitari del San Luca».
Per come è andato il processo, si aspettava una sentenza di questo tipo?
«Speravo che andasse a finire così, ma razionalmente ho pensato: tutto è possibile. E' stato un processo lungo e complicato. Ed è innegabile che il pm Martuscelli, che nella sua requisitoria non aveva ritenuto sussistente il reato di sequestro, ci ha spiazzato e ha mischiato ulteriormente le carte. Non sapevo davvero cosa aspettarmi. E' arrivata una sentenza importante, che ci soddisfa».
Gli infermieri, però, sono stati assolti...
«Non ho capito bene per quale motivo, ma aspetto le motivazioni della sentenza per esprimere un giudizio in merito».
C'è qualcosa che ha sentito durante il dibattimento e che le ha dato particolarmente fastidio?
«Sì, tante. Come ad esempio sentir dire dagli avvocati degli imputati che avremmo mostrato ai media solo alcune parti del video, in modo da distorcere la realtà a nostro uso e consumo. Oppure sentire dire che legare mio mio è stato un 'dovere medico', esercitato per 'proteggerlo'. Che il trattamento sanitario obbligatorio consiste essenzialmente nella contenzione, e che questa è una terapia, come ha dichiarato il direttore sanitario dell'ospedale di Vallo della Lucania. Che assurdità».
Uno dei motti del comitato 'verità per Franco' è stato "affinchè non accada mai più". Servirà a qualcosa, in questo senso, la sentenza?
«Credo proprio di sì. Prima di tutto perché l'opinione pubblica comincia a rendersi conto di quello che può accadere in un reparto psichiatrico. E poi perché la pronuncia del tribunale di Vallo può rappresentare un precedente importante. Forse i medici, sapendo di correre il rischio di essere accusati di sequestro di persona, da domani ci penseranno bene prima di legare al letto, senza motivo, un paziente».
Lei da diversi mesi è impegnata nel progetto "slegami", una sorta di osservatorio sulla contenzione, insieme all'associazione "A buon diritto" di Luigi Manconi. Vi arrivano molte segnalazioni di abusi?
«Sì, ci hanno contattato diverse persone, in relazione a casi di contenzione prolungata avvenuti nei reparti psichiatrici. Spesso, però, chi subisce queste violenze non ha il coraggio di raccontare. Perché si sente umiliato, si vergogna. Si deve parlare molto di più di questo fenomeno, grave, molto diffuso e spesso quasi sconosciuto. Che riguarda anche le strutture che ospitano gli anziani».
Continuerà ad occuparsi di abusi psichiatrici anche dopo che la vicenda giudiziaria che riguarda suo zio sarà chiusa?
«Certo. Ormai è un impegno che occupa uno spazio molto importante della mia vita. Non è possibile che persone che dovrebbero essere tutelate e curate vengano di fatto torturate. All'interno di un ospedale pubblico. Non possiamo accettarlo».