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'Sì, siamo anarchici: ecco perché'

Un migliaio di ragazzi, ovviamente precari. Che creano comunità nelle case abbandonate di Milano. Decidendo di vivere in un modo diverso, tra sogni e utopie. Siamo andati a incontrarli (Foto di Andrea Kunkl)

Come una crepa, che si è aperta nel cuore grigio di tante città italiane e continua a ramificarsi. Edifici occupati in centro e in periferia, per animare comunità che vivono valori diversi e sognano la rivoluzione. Le crepe sono fratture che nascono dalla violenza, dalla decisione di violare il codice penale per entrare in immobili abbandonati, da campagne militanti e scontri. Ma sono anche i varchi da cui entra una luce diversa; fanno crescere momenti creativi che sfornano arte, musica, cultura e i frutti di orti biologici, embrione di un'economia che ignora le regole del mercato.

Li chiamano anarco-insurrezionalisti, una definizione che in questi mesi domina le informative di polizie e servizi segreti: il pericolo pubblico numero uno, che con il ferimento del dirigente Ansaldo di Genova ha riportato l'allarme terroristico nel Paese. Ma quelli che vedete in queste foto sono i volti di una realtà molto differente: trentenni e ragazzi che cercano l'alternativa a un'esistenza da bamboccioni e alla prospettiva di una società chiusa. La maggior parte sono laureati e studenti: hanno davanti un futuro da disoccupati o precari e non vogliono restare con le mani in mano.

Sono tanti: nel solo capoluogo lombardo oltre mille giovani fanno parte dei collettivi di quest'area, difficile da schematizzare perché ispirata da un fermento di idee e proteste che trovano sintesi temporanea solo in alcune mobilitazioni condivise. «Per gli anarchici siamo comunisti, per i comunisti siamo anarchici», commenta uno di loro.  Andrea Kunkl, fotografo e sociologo, li ha seguiti per due anni, costruendo un diario per immagini di alcune delle comunità anarchiche milanesi. E gli esponenti di questi collettivi hanno accettato di confrontarsi con "l'Espresso".

I loro spazi - sottolineano - sono aperti e non somigliano a nessuna delle realtà del passato: lo specchio di un'altra generazione, che non ha conosciuto l'Autonomia degli anni Settanta, non ha respirato gli anni di piombo e spesso è troppo giovane per avere preso parte al movimento no global che si è spento dopo lo choc del G8 di Genova. Il più vecchio del "Lambretta", l'ultimo spazio aperto nel quartiere Lambrate, ha 24 anni, un contratto a tempo come tecnico informatico da 800 euro al mese e si sente «comunista a modo mio»: adesso abita con altri 11 coetanei in due villette, dove si ritrovano studenti liceali che hanno riscoperto la politica e le assemblee.

Questi edifici costruiti un secolo fa con eleganza liberty appartengono all'ente comunale delle case popolari: sono rimasti chiusi per oltre un decennio, mentre il giardino era diventato il rifugio dei tossicomani richiamati dal confinante Sert. «Quando siamo entrati abbiamo passato giorni a raccogliere siringhe, erano dovunque: sulla porta c'era una bestemmia scritta con il sangue; sembrava Scampia. La mattina dopo siamo stati svegliati dalle famiglie dei condomini vicini che ci hanno portato la colazione per ringraziarci. Abbiamo ripulito tutto e adesso il "Lambretta" è diventato l'unico spazio di ritrovo di questa parte della città».

Ora c'è una palestra, con lezioni gratuite di danza e boxe. E sale a disposizione di corsi e associazioni: una corale prova accompagnata da un quartetto d'archi mentre in un'altra stanza si discute di come fronteggiare il possibile sgombero. «Ma per ogni edificio da cui ci buttano fuori ormai nascono due nuove occupazioni», racconta Jack Nucleare, capelli rasta, studente di scienze naturali e veterano delle lotte per la casa a Milano che come tutti si presenta con il soprannome.

Descrive il risveglio di un movimento, che si era sgretolato dopo il G8 di Genova, e sostiene che oggi nella provincia c'è una rete con mille immobili occupati, tra centri sociali e singoli appartamenti in cui vivono famiglie povere. La loro riscossa è partita dalla "Bottiglieria", il gruppo che per primo tre anni fa ha inventato la resistenza sui tetti: i ragazzi salivano in alto e ci rimanevano finché la polizia non andava via o si trovava un accordo. Tutta Italia li ha poi imitati, con operai che si sono piazzati su torri, gru e ciminiere. Dal punto di vista ideologico sono molto divisi. A unirli sono alcune campagne: quella contro i centri detenzione per immigrati, contro il precariato, le lotte studentesche e per l'emergenza abitativa. Ma i collettivi si cementano soprattutto nell'esperienza della comune: la vita in un altro spazio e in altro tempo.


Nelle parole di Jack e di Casper, ferroviere e anarchico come Giuseppe Pinelli, conta molto il recupero di una dimensione diversa del tempo. «L'occupazione, o meglio la liberazione, di uno spazio è solo il pretesto. Il vero obiettivo è la liberazione del tempo che quotidianamente ci viene sottratto.

La cosa buffa o no, è che nell'anarchia non c'è caos: abbiamo scoperto che per prendere una decisione tutti assieme è meglio non votarla. Si discute per ore finché o si è tutti d'accordo o non si fa: questa è la vera "democrazia" ma questa è l'anarchia, nessuna maggioranza, nessuna minoranza, nessuno scontento o indeciso». Tra i poli milanesi più famosi ci sono la "Stamperia occupata", lo storico "Torchiera" e il nuovo "Villa Schettino". Il "Tortuga" si distingue per la vocazione artistica: hanno aperto un cinema, una biblioteca, inventano stage su botanica, acqua pubblica e energie alternative. L'attenzione al territorio è dominante al "Boccaccio" di Monza, che in dieci anni ha cambiato altrettante sedi: una sorta di carovana, che adesso ha messo le tende in una struttura sportiva chiusa da tempo. Come gli altri, fanno skipping: chiedono ai supermarket, ai mercati rionali e ai panettieri i cibi che stanno per scadere, con cui si sfamano o preparano cene per finanziare lavori, proteste o sostenere le spese legali per i compagni sotto inchiesta.

Le denunce non mancano: per le occupazioni o per gli scontri durante i cortei. Di violenza si parla spesso. Quasi tutti hanno la felpa nera. Sono stati in Val di Susa dove hanno respirato «la fratellanza con i valligiani» e preso parte alle azioni contro i cantieri della Tav. Ma sostengono di non credere alla lotta armata: «Nessuno di noi ha mai nemmeno ipotizzato di prendere una pistola e uccidere», spiega un trentenne del Boccaccio, che gestiva una libreria per bambini e da pochi mesi ha chiuso perché la concorrenza delle grandi catene lo ha messo ko. Casper mette l'accento sulla rabbia, altro sentimento condiviso.

«Sono stato a Barcellona per incontrare gli Indignados, volevo rendermi conto del loro movimento. Ma non mi hanno convinto: gli ho detto che smetteranno presto di fare gli indignati e si renderanno conto di essere arrabbiati. Io ho le mie idee, le confronto, cerco sempre di crescere, studio, leggo, mi informo, ma la rabbia non cala, anzi cresce. Cosa ci posso fare? Non riesco a stare zitto e fermo. Credo e voglio partecipare davvero. La violenza? Scusatemi, ma non mi sento un violento ad occupare un posto abbandonato da anni e ridargli vita, non mi sento violento ad attaccare i simboli del potere dell'uomo sull'uomo». Sono certi che "il sistema" crollerà da solo, senza bisogno della loro spinta, divorato dalla sua stessa crisi economica e sociale. E quello sarà il momento dell'insurrezione. Forse un'idea remota, ma a cui non rinunciano, perché vogliono sentirsi rivoluzionari. "Eppur la nostra idea non muore", per parafrasare i loro bisnonni di "Addio Lugano bella".

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