In Italia, secondo Confcommercio, nel 2012 hanno chiuso 150mila negozi al dettaglio. Dall'abbigliamento alle calzature, dalla pelletteria agli alimentari, a soffrire di più sono le piccole attività a conduzione familiare. Ecco la cronaca di una metamorfosi che cambia le nostre città. E che sta creando una nuova categoria di poveri (Fps Media)
Chiuso per sempre. La crisi economica vista dai piccoli negozi o dai medi e grandi esercizi commerciali è un susseguirsi di sconfitte silenziose che feriscono e debilitano i tessuti urbani italiani. Da sud a nord, è uno stillicidio di attività chiuse che frenano le economie cittadine e generano disoccupazione e povertà: Confcommercio stima la chiusura di oltre 150mila negozi in Italia nel 2012.
L'allarme della Capitale. La Camera di commercio romana ha elaborato per L'espresso una proiezione della crisi per gli esercizi commerciali dal 2009 ad oggi. Se le 38.264 imprese romane del 2009 sono addirittura inferiori alle attuali 38.327, è solo perché vengono conteggiate anche quelle che variano denominazione sociale o provincia. In realtà, tra gennaio e settembre del 2012 il saldo tra imprese attive e passive è negativo segnando un pesantissimo -900: nel 2011 è stato di -920, nel 2010 di -601 e nel 2009 di -899. Secondo Confcommercio, i negozi chiusi a Roma sono addirittura 12mila negli ultimi due anni. A prescindere dai numeri, tutti concordano sulle dimensioni: sono i “piccoli”, gli esercizi da 1 a 9 addetti che rappresentano mediamente (considerando gli ultimi 3 anni) il 97% delle imprese cessate. Seguono gli esercizi che hanno tra i 10 e i 49 addetti, che solo negli ultimi anni hanno cominciato a soffrire lievemente la crisi (in questa categoria, tra il 2011 e il 2012 hanno chiuso 46 imprese, il 2,5% del totale), mentre la congiuntura non sembra intaccare né le imprese con oltre 50 impiegati né grandi magazzini, discount e supermercati. Chi ha sofferto di più la crisi? Le pelletterie, i negozi di abbigliamento, calzature, i mobilifici e poi i “pizzicagnoli”, cioè i rivenditori di prodotti alimentari e le macellerie, così come i ferramenta, le erboristerie, le gioiellerie e i negozi di orologi.
Quali sono i problemi degli esercizi a Roma e in Italia? «Le tasse e la stretta creditizia che gravano sulle imprese e a questo si aggiungono i costi crescenti degli affitti e di acquisto di immobili: così i titolari si trovano in difficoltà con i fornitori e quindi la crisi incide su tutta la filiera», spiega Renato Borghi, vicepresidente di Confcommercio nazionale. E Roma non si nasconde: basta camminare per le strade centrali capitoline per vedere le saracinesche chiuse, come in via Cola di Rienzo, dove una negoziante in crisi denuncia: «Quello che facciamo in meno oggi, ieri serviva per pagare le tasse: adesso non posso più pagare i fornitori, né ho ricavi sufficienti per me». Bisogna poi passare sulla Tuscolana, sull'Appia, sulla Cassia, a Testaccio, all'Eur per osservare come la geografia fisica della Città eterna sia cambiata, dove i megacentri con cupole altezzose sono diventati i non-luoghi dello shopping, le città nelle città che non parlano più il romanesco del pizzicagnolo Mario Brega, quando nel film “Borotalco” obbligava Carlo Verdone a provare le sue olive che “so' bone perché so' greche”: un richiamo geografico che oggi, più che sorridere, fa rabbrividire.
Istantanee della crisi. La situazione di Roma è emblematica del quadro nazionale, un'immagine a tinte fosche che si spande su tutto lo Stivale. Per fare un esempio, basta considerare la Sicilia: l'anno scorso a Siracusa hanno cessato la propria attività 300 aziende, lasciando a casa 1400 persone. A Palermo, solo a gennaio, chiuderanno almeno 100 imprese commerciali: secondo il presidente di Casartigiani Elio Tessitore, «il 2013 si preannuncia drammatico, la città sta morendo». Ma il centro e il sud non sono le uniche zone a mostrare le targhe dei negozi “chiusi per sempre”. E in questa drammatica sfida per la sopravvivenza, la Capitale politica, purtroppo, non dista tanto da quella economica: se Sparta piange, Atene non ride.
L'abbaglio della Madunina. Vista attraverso i dati, Milano sembra reggere bene agli urti congiunturali: il numero degli esercizi commerciali è addirittura cresciuto negli ultimi dodici mesi dell'1,1%, un dato stabile negli ultimi tre anni. Secondo la Camera di commercio milanese, che come quella romana ha elaborato per 'L'Espresso' una proiezione della crisi per gli esercizi commerciali dal 2009 ad oggi, al terzo trimestre 2012 erano attive 16.743 imprese, di cui le nuove iscritte erano 221 e le cessate 179: insomma, un saldo positivo. Ma senza gli ambulanti e l'imprenditoria straniera (specialmente quella cinese ed egiziana, la prima dedita a bar, negozi d'elettronica e abbigliamento, la seconda più legata alle panetterie e all'ambulantato) il dato sarebbe drammatico.
Come spiega ancora Borghi, «a Milano si resiste meglio perché le imprese sono più strutturate e le famiglie hanno un reddito più alto. Ma l'aumento dell'imposizione fiscale ha ridotto le risorse destinate ai consumi dalle famiglie, il cui reddito reale è tornato ai valori di 15 anni fa: per questo i milanesi rinunciano alla qualità e così chiudono i piccoli negozi al dettaglio e le botteghe storiche». E quelle che vendono prodotti artigianali di alta qualità, specie nel settore dell'abbigliamento e degli accessori di moda.
«Sono un'artigiano della pelletteria», racconta Mauro Agnesani, che ha un laboratorio e un punto vendita in via Fiamma, distante meno di un chilometro dalla centralissima piazza San Babila. «Ho aperto nel 1988 e ho avuto per anni come clienti l'alta borghesia meneghina, i giocatori del Milan e manager e imprenditori come Sergio Cusani, che quando passava dal negozio comprava borse per migliaia di euro». Oggi Agnesani è in difficoltà, come i colleghi del comparto. «Non avevo mai visto prima un negozio come il mio che per mesi interi non vedesse entrare un cliente: oggi le borse non le appalto più fuori, ma le faccio io, come da bambino quando imparai il mestiere di pellettiere. Per me la crisi è iniziata nel 2010 e quest'anno ho raccolto circa il 70% di fatturato in meno rispetto al 2009: colpa della congiuntura, su cui influisce anche Equitalia che colpisce me e i miei clienti. Il risultato è che le mie difficoltà si riversano sui fornitori, a cui chiedo meno prodotti e che sono comunque costretto a pagare in ritardo».
È l'abbigliamento artigianale, fiore all'occhiello della capitale economica, che soffre di più la crisi del comparto moda: a Milano, un negozio tessile su sei ha chiuso i battenti negli ultimi tre anni (da 350 unità nel 2009 a 290 nel 2012). «E nell'anno appena passato, hanno chiuso 50 imprese su 150 attive nell'abbigliamento al dettaglio su Milano e provincia: una su tre», racconta Borghi, che è anche presidente di Federazione Moda Italia. Dai dati si scopre come oltre al tessile, abbiano chiuso definitivamente i battenti molti mobilifici (da 669 esercizi a 585 negli ultimi tre anni), panifici (da 388 a 340) e negozi di giocattoli (da 120 a 106). D'altro canto, sono aumentate le sale giochi: dalle 92 del 2009 alle 111 del terzo trimestre 2012. Peccato che recentemente la Caritas Ambrosiana abbia denunciato che «sono i ludopatici la nuova emergenza sociale» cittadina, una categoria di disagiati che appartiene soprattutto alle fasce sociali più deboli: le stesse che vengono ingrossate dai negozianti costretti a chiudere definitivamente la propria attività.