Basta alibi e piagnistei. E non basta nemmeno più 'innovare'. Bisogna proprio rottamare la vecchia economia, con i suoi concetti sbagliati. Parla Davide Canavesio, 41 anni, che nella sua azienda è riuscito a assumere in tempo di crisi. E qualcuno lo chiama 'il nuovo Olivetti'
"Il domani è oggi". Davide Canavesio è un imprenditore piemontese, ha 41 anni e le idee molto chiare già da tempo. Così chiare che lui, i suoi dipendenti, pure in periodo di crisi, qui in Italia non li licenzia. Anzi, li assume. Anzi, li paga per fare volontariato, durante le ore di lavoro, in associazioni con cui studia un percorso di formazione. "Perché la produttività persa" dice all'Espresso "si ripaga col carico motivazionale". L'Adriano Olivetti del duemila c'è già.
Laureato col massimo dei voti in economia, ha collaborato con le Nazioni Unite a Nairobi, ha fondato nel '99 una società, la Envision, che si occupa di consulenza in comunicazione istituzionale per le più importanti aziende del mondo. Ha un master ad Harvard e ha ideato, nel 2009, il primo 'G8 of the Young Entrepreneurs', a Stresa. Parla quattro lingue e sta imparando il cinese e il farsi. Nel 2010 è stato eletto presidente dei Giovani Industriali di Torino e nella corsa per la guida nazionale dei giovani di Confindustria, è stato battuto, per un soffio, dal fiorentino Jacopo Morelli, oggi presidente.
La Saet group di Leinì, in provincia di Torino, l'azienda fondata dal padre, aveva un solo stabilimento quando lui, rientrato da Londra, ne ha assunto la guida per strapparla agli appetiti di alcuni acquirenti tedeschi. Oggi è una multinazionale tra i primi tre produttori al mondo di impianti per trattamenti termici ad induzione elettromagnetica. Ha 350 dipendenti in 7 stabilimenti sparsi in quattro sedi: Italia, Stati Uniti, India e Cina. In un intero anno sabbatico Canavesio ha studiato un piano per salvare l'azienda di famiglia, lasciarla in Italia, non delocalizzare e investire, salvando i posti di lavoro. Ha acquisito anche altre società italiane ed estere. Tutto in un periodo di crisi. Oggi il fatturato è cresciuto e oltre il 70% della produzione è venduto su mercati internazionali.
Si può fare, quindi? "Sì, si può fare. Certo, abbiamo avuto anche noi le nostre difficoltà, ma non sono mai state un alibi per tagliare i posti di lavoro. Abbiamo fatto qualche anno in cassa integrazione e mobilità, poi ci siamo ripresi e abbiamo assunto altro personale".
Com'è nata l'idea di pagare i propri dipendenti, durante l'orario di lavoro, per fare volontariato? "Qualche anno fa lavoravo a Londra per una grossa società di consulenza: ogni consulente aveva in media due clienti e nel tempo libero ne seguiva un terzo, gratuitamente. Si trattava di aziende in cui non si timbrava il cartellino, e il contesto era anglossassone. Ma la mia sfida era proprio questa: portare l'esempio in Italia, in un contesto aziendale diverso. Trascorriamo la gran parte del nostro tempo al lavoro, per chi ha la fortuna di averne uno, e tra gli impegni familiari non abbiamo mai tempo da dedicare agli altri. Chi fa volontariato in Italia? Casalinghe, pensionati, studenti: ed è difficile che vi dedichino le ore centrali della giornata. Quindi ho pensato: lo faccio fare io, come imprenditore, perché vorrei che la mia azienda fosse innovativa anche da questo punto di vista".
Come funziona? "Nel 2009 ho proposto il progetto ai miei dipendenti e abbiamo fatto un incontro con i sindacati che si sono mostrati intelligenti e sensibili. Abbiamo deciso che io avrei pagato 3 ore al mese e chi avesse voluto aderire al progetto le restanti due, in modo che fare volontariato non fosse solo un pretesto per assentarsi dal lavoro. Senza nessun incentivo pubblico. Nel 2009 sono state spese 1000 ore, in questo modo. Hanno aderito 20 dipendenti tra dirigenti, operai, uomini, donne, giovani e anziani. In maniera trasversale. Il mio obiettivo è averne un massimo di 30".
E la produttività persa? "È un falso problema. Quelle ore le recupero in motivazione, e poi, quando rientrano al lavoro, sono più produttivi di prima".
Con quali associazioni lavorate? "Col Cepim di Torino, il centro italiano down, con la Paideia, che assiste i nuclei famigliari in difficoltà, e con l'associazione Sollievo di Leinì per bambini che vivono condizioni di disagio. Insieme abbiamo studiato un percorso di formazione, come ci hanno chiesto i miei dipendenti. C'è naturalmente una selezione che effettuano i responsabili delle associazioni: non tutti sono in grado di gestire la delicatezza di alcune situazioni. Potrà sembrare strano, ma molti altri imprenditori che conosco sono interessati a replicare il modello qui in Italia, nelle loro aziende".
Mariangela Battisti, responsabile del progetto nell'associazione Paideia di Torino, conferma all'Espresso: "Sono andata personalmente in azienda e ho incontrato una decina di nuovi dipendenti che vogliono aderire. Con i vecchi volontari si è instaurato un solido rapporto di fiducia tanto che, dopo anni, ha coinvolto anche le loro famiglie nell'attività di sostegno ai nostri bambini. Confesso che in questo periodo di crisi non ci aspettavamo che la Saet ci ricontattasse per rinnovare la disponibilità. Invece è successo e siamo rimasti felicemente sorpresi da questo".
Canavesio, il suo esempio concreto toglie l'alibi che in Italia non sia possibile risanare le aziende e assumere anche in periodo di crisi. Quale potrebbe essere una ricetta anche per gli altri imprenditori in difficoltà? "Il problema è un altro. L'Italia ha bisogno di un piano industriale per i prossimi 15, 20 anni, non di rimedi emergenziali dal fiato corto. Quando chiedo ai colleghi all'estero perché non voglio investire qui, rispondono che l'instabilità politica impedisce che i piani superino i 6 mesi di vita. Sa cosa ha fatto Obama, durante il suo primo mandato? Ha radunato i tycoon più importanti del paese, tra cui Steve Jobs. E a lui ha chiesto cosa dovesse fare per riportare la produzione dell'i-phone negli States. Era quella la domanda giusta. L'Italia dovrebbe puntare a un obiettivo, come, ad esempio, decidere di essere il più grande paese di wi-fi free del mondo e attuare delle politiche di conseguenza. Gli investitori verrebbero qui, da tutto il mondo".
Perché non lo fa? "Per mancanza di competenze, per problemi di corruzione e collusione tra politica e affari, ma, più di tutto, per mancanza di una visione. Il governo Monti ha fatto l'impossibile nei primi tre mesi, salvando il paese dal rischio di una bancarotta, ma occorreva anticipare la fase due, quella della crescita, che non era l'obiettivo di quel governo. L'austerity imposta oggi non ha senso. Continuiamo a tagliare i costi, ma poi? Noi non ci occupiamo mai del rilancio del pil, ma solo del debito. Invece bisogna inventarsi un piano per stare nel mercato. America, Giappone e Inghilterra hanno immesso moneta. Noi abbiamo il problema di contrattare con l'Europa, ma per presentarsi forti a questo tavolo, dobbiamo portare in dote una stabilità politica che non c'è. Iniziamo a cambiare la legge elettorale".
È d'accordo sul protocollo Lombardia che alleggerisce i contratti a chi sta per entrare in pensione, per agevolare l'assunzione di personale più giovane, la cosiddetta "staffetta generazionale"? "Può essere un tampone, ma il lavoro non lo si fa per decreto. Lo decide il mercato. Io non credo più nei politici, ma nella politica sì. Pensi all'Agenda digitale, ad esempio. Come può essere una priorità nell'agenda politica attuale, se chi se ne occupa si aggira su un'età media di 60 anni e non sa neppure cos'è un cloud computing?".
Non sarà anche lei "un rottamatore"? "Sì, lo scriva pure: è una questione generazionale. Il mio sogno di quarantenne è dare una spallata ai settantenni di oggi che non hanno investito sul nostro futuro, per lasciare libero uno spazio ai ventenni: sono molto più svegli e preparati di noi. Solo così il paese può ripartire".