Era un punto di riferimento per il quartiere di Tor Bella Monaca. Uno sportello dove le donne maltrattate potevano trovare assistenza psicologica, avvocati, contatti con le forze dell'ordine, corsi per trovare un lavoro. Finito sotto sfratto. Ma per difenderlo si sono mobilitate migliaia di persone

Tor Bella Monaca, periferia Est di Roma. Un quartiere di quelli paragonati a Scampia, Quarto Oggiaro, fino allo Zen di Palermo. Palazzoni e cemento. Un quartiere dove i casi di violenza sulle donne sono purtroppo frequenti (come nel resto d'Italia d'altronde, se succede in quasi una famiglia su tre). Ma fino a poche settimana fa per ragazze e madri maltrattate c'era almeno un punto di riferimento: una stanza, due divani, psicologhe e psicoterapeute a disposizione, ma anche avvocati penalisti, contatti con le forze dell'ordine e corsi per trovare un lavoro. Erano le attività del “Centro Supporto Popolare Psicologico”, aperto il 27 maggio del 2011, che garantiva assistenza a chi ne chiedeva aiuto a tariffe minime, e senza finanziamenti pubblici. Garantiva: perché è stato sfrattato. L'associazione che le ospitava gratuitamente è stata sbattuta fuori e anche loro sono finite per strada.

«O meglio in casa», spiega Stefania Catallo, la direttrice del centro: «Nel senso che stiamo ricevendo in casa nostra le donne che stavamo seguendo. Non possiamo interrompere il loro difficile percorso di superamento delle violenze familiari». È una tipa tosta, la Catallo, parlatina sciolta e una gran furia per la fine che rischia di fare il Centro Anti Violenza che dirigeva da tre anni, a cui si erano rivolte, di passaggio, più di 800 persone, e di cui 50, italiane e straniere, seguite per tutto il tempo necessario a dare un taglio definitivo agli abusi. È stata lei a lanciare, con l'aiuto di alcune giornaliste Rai, una campagna per salvare lo sportello, unita a una lunga lettera inviata alle autorità, dal sindaco Ignazio Marino fino al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Spettatori a una delle conferenze organizzate dal Centro

In due settimane la pagina creata su change.org ha raccolto oltre 44mila firme. E centinaia di commenti di sostegno: «Firmo perché tutte le azioni e i centri che contrastano la violenza sulle donne devono essere sostenuti», scrive Lucia Pastoreli, da Arezzo. «Perché sono donna? perché la violenza aumenta invece di diminuire? perché, perché, perché...», ribadisce Anna Zallone di Modugno, in provincia di Bari. «Non ci saremmo mai aspettate così tanto sopporto», racconta Catallo: «Ogni mattina mi sveglio e la prima cosa che faccio è controllare come va la petizione».

Manca poco ad arrivare a 50mila sottoscrittori. «Appena arriveremo a quel traguardo chiederemo un'audizione al Presidente Napolitano», garantisce lei. Vogliono arrivare alla massima autorità dello Stato, «per chiedere un impegno concreto», sottolinea la direttrice del Centro: «Perché finora non abbiamo ricevuto risposte realistiche. L'assessore alle pari opportunità del VI Municipio ci ha ricevute, ma non ha altro da offrirci che una stanza da due metri per tre: impossibile per le nostre attività. Dal sindaco Ignazio Marino invece solo un tweet e il sostegno formale». Sono arrivate a parlare anche a Isabella Rauti, consigliere del ministro dell’Interno per le politiche di contrasto alla violenza di genere: «È stato molto disponibile», racconta Stefania: «Ha detto che valuterà la possibilità di lanciare un bando per assegnare al Centro un bene confiscato alla mafia». Dove far riprendere i corsi di teatro, le attività di sostegno psicologico, l'orientamento per le denunce, e in generale per ridare concretezza a quella presenza che servirebbe ci fosse, per davvero, in ogni quartiere d'Italia.

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