'Libera', giocare a rugby per dire no all'omofobia
Nasce a Roma il primo club sportivo inclusivo dedicato agli appassionati di palla ovale e aperto a tutta la comunità Lgbt ed etero. Con il sogno di partecipare alla Union Cup e ai mondiali
Se tanti allenatori usano ancora la parola “frocio” per spronare i loro atleti, e se negli spogliatoi questo è il termine più gettonato per prendere in giro i compagni di squadra, un qualche motivo ci dovrà pur essere: lo sport nel nostro Paese resta una roccaforte dell'omofobia. Ma i ragazzi del Libera rugby club hanno voluto violare questo tabù, e hanno creato il primo team di rugby “inclusivo” in Italia: ovvero aperto sia agli etero che ai gay.
[[ge:rep-locali:espresso:285142022]]Si allenano due sere a settimana su un grande campo erboso nell'ex cinodromo di Roma, che oggi è occupato da un centro sociale, l'Acrobax. Stefano Iezzi, 38 anni, funzionario della Banca d'Italia, ha fondato Libera nel luglio del 2013: spiega che per anni ha sofferto il disagio “da spogliatoio”, quando giocava in una squadra della capitale. “Spesso questa cosa di dire continuamente “frocio” o “femminuccia” è solo un modo un po' pesante di scherzare, senza intenzioni realmente cattive – dice – Ma io penso a quegli adolescenti che vorrebbero avvicinarsi a uno sport, e che se sono gay inevitabilmente non potranno mai integrarsi in un ambiente dove impera un machismo obbligato, un clima da caserma. Ricordiamo che essere omosessuale rappresenta ancora oggi una delle cause principali di suicidio per i più giovani”.
Se entri in squadra, comunque, nessuno ovviamente ti chiederà il tuo orientamento sessuale: basta condividere le idee di apertura del gruppo, e sostenere la necessità di un progresso nei diritti civili. Il Libera porta ogni anno il suo striscione al Gay Pride. “Con noi giocano ragazzi etero – spiega Andrea Carega, 38 anni, imprenditore nella grafica – E chissà che prima o poi non si unisca qualche transgender”.
D'altronde lo sport fa bene al fisico, certo, ma spesso aiuta nella crescita interiore: “Il rugby ti fa misurare con te stesso, per vincere le paure – osserva Andrea – E ti spinge a legare, a collaborare. Ad esempio quando con gli altri fai la 'mischia', quella formazione tipica a testuggine. O se devi portare la palla alla meta: i compagni devono sempre sostenerti, non esiste il solista come nel calcio”. E non serve essere per forza degli “armadi”: “Abbiamo iscritti dai 24 ai 39 anni, e vanno bene un po' tutte le corporature. Il 'mischiarolo', sì, magari è meglio che sia più forte e robusto, ma i trequartisti che stanno dietro vanno bene anche più magri. E il mediano di collegamento, che deve portare la palla fuori dalla mischia, funziona se è più basso, per muoversi agilmente”.
Libera non può ancora partecipare ai tornei professionisti: per iscriversi alla serie C servirebbero sui 30-35 giocatori, bacino da cui pescare i 22 necessari tra squadra in campo (15 componenti) e panchina. I ragazzi stanno anche cercando uno sponsor, utile per coprire alcune spese: magliette, scarpini, qualche trasferta. O più banalmente, il cosiddetto “terzo tempo”: quella cena che gli ospiti offrono agli avversari dopo un'amichevole.
Ma c'è un grande sogno, da realizzare già in primavera: partecipare alla Union Cup, il torneo europeo di rugby per squadre gay friendly che si svolge questo maggio a Bruxelles. Per non parlare dei mondiali, la Bingham Cup, previsti nel 2016 a Nashville (Mark Bingham, rugbysta gay, era uno dei passeggeri del volo United 93 dell'11 settembre 2001: morto dopo aver animato la ribellione contro i terroristi).
Sì, perché mentre in Italia il rugby “inclusivo” è ancora allo stadio pionieristico, all'estero è invece molto sviluppato. Ha una sua associazione, l'International gay rugby association, ed esistono team affermati nei principali paesi, dagli olandesi Amsterdam Lowlanders ai belgi Straffe Ketten, dai Cologne Crushers di Colonia fino ai londinesi Kings Cross Stealers, nati nel 1995, la più antica squadra gay-etero inclusive del mondo. E poi ancora Francia, Spagna, Svizzera, Danimarca, per non parlare di Usa e Australia. Non pervenute, almeno per il momento, la Russia e tutta l'area dei paesi ex comunisti.
Gli sponsor sono spesso grosse aziende o multinazionali: “Adidas, Body Shop, Barclays Bank, Jägermaister, Brussels Airlines, negli altri paesi questi tornei sono molto ben radicati e finanziati – spiega Stefano – Da noi siamo ancora allo stadio in cui se organizzi delle competizioni Lgbt friendly, come l'annuale Italian Gaymes, ti becchi del 'pervertito' dalla rivista integralista di turno”. E nel gruppo facebook dell'associazione non mancano ogni tanto gli insulti, o le domande un po' strane: tipo, “ma c'era bisogno di una squadra di gay?”, “chi vi ha chiesto di dire con chi andate a letto?”.
In Italia può essere difficile perfino reclutare nuovi giocatori, ma a Libera non demordono: “Abbiamo fatto volantinaggio all'università, ma non è così semplice: chi ha 20 anni se è gay magari non ha ancora fatto coming out, e se è etero non si avvicina a un'esperienza come la nostra, perché deve ancora dimostrare agli altri di essere 'maschio'. Più grandi, allora sì”.
Infatti uno dei giocatori di Libera, ma lui ha 38 anni, è dichiaratamente etero: si chiama Umberto Cesaro, e lavora in una onlus che fa teatro e comicoterapia: “Non appartenendo alla comunità Lgbt – spiega – mi hanno molto colpito gli attacchi ricevuti su facebook dalla squadra: non pensavo che l'omofobia fosse così diffusa. Da quando gioco con Libera, degli sfottò li subisco anche io, da parte dei miei amici: e dire che sono persone dello spettacolo, teoricamente più aperte. Mi prendono in giro, dicono “chissà cosa capita in quegli spogliatoi”, e se li invito ai nostri eventi non ci vengono. Alcuni perché pensano di non trovarci le ragazze, altri forse ancora ritengono che i due ambienti, quello maschile gay e quello etero, debbano rimanere separati”.
Anche la compagna di Umberto è una attrice di comicoterapia: “Lei è una delle nostre più grandi fan, e noi la adoriamo – conclude Andrea – A lui lo diciamo sempre: guarda che ti teniamo d'occhio, perché ormai l'abbiamo adottata”.