Un occhio alla geografia, e non solo alla statistica, un'attenzione alle somiglianze, alle analogie, nell'individuare modelli di sviluppo territoriale che non hanno niente a che fare con i confini amministrativi comunali o regionali, ma anzi li sovvertono e li ridisegnano completamente. Uno sforzo di interpretazione dei fenomeni che non è solo affidato ai numeri, ma si spinge sul terreno della sociologia. Il rapporto 2015 dell'Istat che viene presentato oggi, il 23mo della sua storia, è tutto questo e anche di più. Perché non si limita a fotografare ciò che vede con gli occhiali della quantità ma racconta i fenomeni del paese con le lenti della qualità. E lancia diversi messaggi politici.
Qualche esempio? Per chi vuole semplicemente sapere se siamo fuori della crisi, i dati non mancano. Il Pil del primo trimestre 2015 ha il segno più (0,3), la crescita acquisita per l'intero anno è già dello 0,2; i consumi sono in ripresa, e il clima di fiducia pure; la deflazione si sta attenuando, l'export ci dà una bella spinta, e la produzione industriale, che l'anno passato era sempre in flessione (meno 0,5 percento contro il meno 3,2 del 2013), all'inizio di quest'anno torna positiva (più 0,3). Ma quando si tocca il tema occupazione, il quadro si fa fosco. Se nel 2014 il mondo del lavoro era tornato a crescere, quest'anno fa marcia indietro, e il tasso di disoccupazione si posiziona (almeno tenendo conto dei dati fino a marzo) sul 13 per cento. Se solo riuscissimo a stare sulla media europea, osserva il Rapporto Istat toccando un tasto dolente e soprattutto in conflitto con la propaganda di governo e del jobs act, avremmo 3,5 milioni di occupati in più.
Dentro questa cornice “macroeconomica”, però, il dipinto è assai più variegato. Anzi quanto mai eterogeneo. Perché il territorio si plasma sui comportamenti delle persone, che si spostano per raggiungere la propria sede di lavoro (è in forte aumento il pendolarismo), o per cogliere nuove opportunità economiche. Questo movimento spontaneo dà vita a “sistemi locali” che sono tutt'altra cosa da quelli fotografati dalle regioni, e che sono essenzialmente di due tipi: i sistemi locali urbani, e quelli produttivi, cioè i distretti che sono stati così importanti per la crescita del nostro paese e ancora ne sono il motore.
Ebbene, il primo gruppo di sistemi, quelli nati intorno alle città, erano mille trent'anni fa, ora sono 600, e 500 di loro hanno ormai un radicamento e un carattere di persistenza che permette di identificarli come l'ossatura del paese, il luogo dei suoi caratteri distintivi, basti pensare che aggregano il 79 per cento della popolazione. La mappa di questi ambiti urbani spiega bene lo sfasamento che vi si produce dal punto di vista gestionale: il loro identikit non rispecchia una stessa identità amministrativa, anche se devono affrontare quotidianamente problematiche comuni e ospitano ben 7,3 milioni di lavoratori, il 45,8 per cento del totale. Prendiamo a titolo di esempio le città metropolitane (che più o meno rispecchiano le vecchie provincie): Torino come città metropolitana comprende 316 comuni ma ne aggrega solo 112 se la si considera come sistema locale; Milano, viceversa, come città metropolitana include un numero di comuni inferiore a quello che ha come “sistema” che afferisce a lei. Il fatto che i sistemi urbani siano punti di forza del paese, dove è più facile, per esempio, trovare lavoro, ma che siano anche più esposti alla crisi della disoccupazione nei momenti bui, dovrebbe suggerire che i loro problemi (territorio, trasporti, bisogni sociali) andrebbero riconosciuti e affrontati come tali e non con le rigidità amministrative che hanno oggi.
Punto di forza del paese è anche quell'altra famiglia di sistemi locali che sono i distretti. Luoghi di elezione per le specializzazioni produttive e per il “made in Italy”. Ebbene, anche loro con la crisi hanno sofferto: dal 2001 al 2011 si erano ridotti da 181 a 141. Ma è al loro interno che la crisi ha prodotto le differenze maggiori. La metà di loro, dice il Rapporto di quest'anno, è rimasta a vivacchiare al prezzo di perdite occupazionali; 29 sono riusciti ad accrescere l'occupazione restando nel loro settore di specializzazione; 22 distretti invece hanno deciso di cambiare settore e specializzazione, e questo gli ha giovato in termini occupazionali; un gruppo di 17 resta a metà del guado, non sa che fare in futuro e rischia grosso in termini di sopravvivenza. Insomma – e questo è il primo dei messaggi del Rapporto - la storia recente ha premiato chi ha saputo trasformarsi ed evolversi. «Restare nella propria nicchia», afferma il presidente dell'Istat Giorgio Alleva, «è un elemento di fragilità».
Un riscontro arriva anche dai comportamenti delle imprese: quelle che hanno le performance più scarse sono quelle isolate; quelle invece che hanno saputo trovare forme di collaborazione reciproca hanno buoni risultati. Morale: la “relazionalità” tra imprese e la “relazione” tra i luoghi fisici serve a irrobustire i fisici più mingherlini. Ma non basta per dare al paese il colpo di reni della ripresa.
Lo spiega meglio un esercizio di confronto che l'Istat ha fatto e di cui dà conto nel Rapporto: la capacità di sfruttare la domanda estera da noi e in Germania tra il 2011 e il 2014. I due modelli produttivi sono affini (meccanica, metallurgia, chimica, alimentari e mezzi di trasporto sono i primi cinque settori per importanza in entrambi i paesi), anche se in Germania la struttura produttiva è più concentrata (in Italia quei 5 settori generano il 17,5 per cento del valore della produzione e il 51 per cento dell'export; in Germania generano il 26 per cento del valore e il 67 dell'export). Ebbene: a parità di aumento del 10 per cento della domanda di esportazione, si genera in Germania un effetto benefico superiore del 60 per cento rispetto al nostro. Non è poco come vantaggio al sistema paese, e condanna gli sforzi immani dei nostri imprenditori a risultati sempre di secondo piano.
Ripartiranno quindi gli investimenti, che sono la benzina della crescita? si chiede il Rapporto. Anche qui i segnali sono positivi, ma lo studio fa anche un passo avanti nell'identificare i settori in cui concentrare l'investimento darebbe una leva più forte al cambiamento. E il primo è l'investimento in cultura: cioè in quel patrimonio nazionale di storia, arte, natura, tradizione, che ci caratterizza. Come orientare questo investimento? Anche qui l'Istat fornisce una mappa per la comprensione dell'esistente.
I “sistemi locali” sono infatti classificati in cinque categorie, a cui vengono attribuite diverse possibilità di costruire il proprio futuro. Il primo è stato battezzato “la grande bellezza” dal film di Paolo Sorrentino che ha vinto l'Oscar. Include 70 sistemi locali in cui vive il 38 per cento della popolazione e sono essenzialmente le città d'arte (da sole Firenze e Roma attirano 33 milioni di visitatori nei musei). Già ben piazzate, possono solo incrementare il loro potere di attrazione.
Il secondo gruppo è composto da 138 sistemi che hanno “la potenzialità del patrimonio” ma soffrono di scarsa dimensione imprenditoriale (per esempio Sicilia e Puglia). Il terzo gruppo, concentrato nel Nord-est, è viceversa quello della imprenditorialità culturale: patrimonio più limitato, ma alta organizzazione. Il quarto gruppo (zone alpine e Mezzogiorno delle isole) denominato il “volano del turismo” pur con alcune attrattive paesaggistiche, ha poco patrimonio e poco tessuto produttivo. Infine c'è il gruppo della “perifericità culturale” (71 sistemi locali), sotto standard su tutti i fronti e in tendenziale abbandono, prevalentemente in Calabria, Sicilia, Sardegna. Le terre di nessuno.
Un altro settore in cui varrebbe la pena concentrare gli sforzi è quello delle “competenze per competere”, vale a dire dell'istruzione. Fattore importante sia individualmente, visto che il titolo di studio continua a costituire un vantaggio per trovare lavoro (nel 2014 il tasso di disoccupazione dei laureati è l'8 per cento), sia per il sistema paese. Infatti l'Istat, analizzando l'andamento dell'occupazione tra il 2011 e il 2014 dà una mappa delle professioni vincenti sulle complessive 508 categorie professionali: sono 70 e includono sia alte specializzazioni tecniche (per esempio ingegneri, elettrotecnici, eccetera), sia specializzazioni non tecniche (per esempio addetti alla contabilità, capotreni, farmacisti), sia professioni tecniche operative (come cuochi, allevatori, odontotecnici...) sia professioni elementari (cassieri, autisti di furgoni, portieri...).
Nella miniera di dati che si trovano nel Rapporto, spicca poi un ultimo messaggio forte. Quello del Mezzogiorno: assente dalle priorità delle policy da molti anni, dice Alleva. È un messaggio di maniera, di quelli che occorre inserire in qualsiasi overview del paese? Ebbene, qui è l'economista a parlare: “Se non si recupera il Mezzogiorno allo sviluppo e alla crescita su cui si stanno avviando altre aree ed altri soggetti del paese, sviluppo e crescita non potranno che essere penalizzati rispetto ad altri paesi“, dice Alleva. Cioè, ne soffriremo tutti come sistema, ne verremo tutti impiombati, come in una maledizione eterna. E nel Sud servono tre ingredienti: capitale fisico, capitale sociale e buona amministrazione. Vediamo se il governo, e magari anche gli elettori delle prossime amministrative, sapranno cogliere il messaggio.