Attualità
gennaio, 2016

Donne, carriere in trappola. Colpa di discriminazioni e pregiudizi 

Troppo carina per far l’ingegnere. Troppo emotiva per decidere. Troppo dolce per comandare. Sono tutti stereotipi:  che danneggiano anche le aziende

Quanto può dire una foto. È il 9 novembre, sul palco parla Lella Golfo, presidente della Fondazione Bellisario, il suo nome saldato alla legge che dal 2011 impone la presenza femminile nei board delle società quotate (allora le donne erano il 6 per cento, ora sono il 23). In prima fila, ad ascoltarla, siedono Giuseppe Vegas, presidente della Consob, e Raffaele Jerusalmi, amministratore delegato della Borsa italiana. Dormono, entrambi. O per lo meno, se ne stanno a capo chino, occhi chiusi, mani in grembo. Istantanea casuale di un rapporto che resta burrascoso: cosa devono fare le manager, le parlamentari, le funzionarie, le impiegate, le ingegnere, per essere prese sul serio dai colleghi? Cosa devono dimostrare, ancora, per farsi arruolare, assumere, riconoscere e ascoltare, alla pari degli uomini?

È solo una foto, certo, ma il problema è globale. Isis Anchalee, una sviluppatrice che ha prestato il proprio sorriso a una campagna pubblicitaria per l’azienda informatica in cui lavora, è stata coperta di insulti sul web, perché considerata “falsa”, “troppo carina” per essere davvero una programmatrice. Uno stereotipo, validato da stuoli di smanettoni nerd rappresentati in occhialoni e jeans nelle serie tv. Uno stereotipo, comune anche ad altri universi, secondo il quale c’è chi è “adatto” e chi no a un mestiere solo a seconda del suo aspetto, o del suo sesso. Su un forum che raccoglie storie di donne occupate in ambienti tecno-scientifici, un’ingegnera nucleare scrive del suo primo incontro con un nuovo capo: «Io non ti avrei mai assunta», le dice lui. «Perché so che le donne non hanno la stessa conoscenza intuitiva dei meccanismi che servono per avere successo in questo campo».
Isis Anchalee

Le discriminazioni di genere dentro e intorno al lavoro, insomma, nonostante tutte le lotte, restano radicate, soprattutto nei campi tecnici. Ma forse - forse - in Italia meno che altrove. Almeno ad ascoltare le due “cacciatrici di teste” contattate da “l’Espresso”. La domanda nasceva dalle storie di cui sopra: il corpo delle donne è tutt’ora un “problema” nei colloqui, in ufficio? Le colleghe sono meno rispettate? La loro risposta è che possiamo forse ritenere finalmente fuori gioco almeno i preconcetti più banali. «Non mi è mai capitato di ascoltare una valutazione che pesasse l’essere “carina” fra i candidati proposti», sostiene Francesca Contardi, amministratore delegato di Page Personnel: «Gli stereotipi restano, ma quelli più profondi o inconsci. Come i pregiudizi verso le leader donna, ad esempio: ingiustificati eppure ancora saldi. Anche perché ci sono pochi modelli da seguire».

RESISTENTI ALLA FATICA

Concorda Beatrice Roitti, partner associato di Key2People: «Molto raramente ho percepito distinzioni dovute al genere o alla bellezza quando ho presentato dei professionisti», spiega: «È vero però che la donna è considerata “più complessa da gestire” rispetto a un uomo; oppure “più debole” e quindi meno adatta a certi impieghi, nonostante la nostra esperienza ci dica esattamente il contrario: siamo altrettanto resistenti noi ai lunghi orari e alla fatica, se non è muscolare».

Gli stereotipi però mantengono la loro forza perché si specchiano in una realtà che non cambia. Isis Anchalee risultava tanto “falsa” a chi la insultava quanto rare sono le ragazze nelle imprese hi-tech e nelle startup della Silicon Valley. E non è una questione solo californiana, ovviamente. I dati dell’osservatorio di Key2People sui contatti da loro avviati confermano la stessa polarizzazione in Italia: nel settore “Ict” (ovvero strutture d’informazione, comunicazione, tecnologia), le donne impiegate oggi sono solo il 15 per cento del totale. Ancora meno se ne trovano nei ruoli che riguardano “Direzione tecnica, ricerca e sviluppo, o produzione”: il 13 per cento. E poco meglio va nel commerciale (22 per cento) e negli uffici legali o fiscali: 24 per cento.

Ognuno di questi numeri potrebbe avere una spiegazione diversa. Quella più evidente riguarda un divario che si annuncia già prima, nel corso degli studi. La sporadicità della presenza femminile fra hardware, server, reti e computer, infatti, è ereditata direttamente dall’università: su 3.824 iscritti maschi a “Ingegneria dell’informazione”, le donne sono 686. Gli immatricolati in “Scienze e tecnologie informatiche” sono divisi fra 17.910 ragazzi e 2.564 femmine. Poco più di una su 10. E lo stesso vale per l’ingegneria industriale: 56mila maschi, 14mila iscritte. Va meglio che in informatica - due su 10 - ma è sempre un abisso che si rispecchia poi nel lavoro.

Da qui si potrebbe poi risalire ulteriormente seguendo quella che per molti è in fondo la linfa del problema: la mancanza d’attrazione verso codici, algoritmi, tavole o sistemi meccanici delle giovani sarebbe essa stessa tara di un lungo stereotipo, che fin da piccole alleva le bambine a non amare i numeri, a preferir le bambole da accudire e curare (nell’area sanitaria le donne sono il 63 per cento del totale, in università) - ma allora forse è dai colloqui per un impiego che bisogna ripartire.

Le stesse statistiche però mettono in dubbio altre percentuali. Per esempio nella “Ricerca di nuovi prodotti”, o nelle squadre di esperti fiscali o legali, perché le donne sono così poche? Nelle discipline che inviano a quei mestieri, ormai, le laureate sono infatti pari o superiori ai compagni. Cosa le tiene allora lontane dalla realizzazione dei loro studi? «Per quanto riguarda le “direzioni tecniche” e i reparti produttivi può essere una questione di flessibilità», spiega Francesca Costardi. «Sono ruoli che richiedono spesso una presenza 7 giorni su 7, o turni il sabato e la domenica. E l’Italia è ancora ferma, statica, quando si parla di conciliazione familiare. Se sul lavoro stiamo dimostrando moltissimo, infatti, nessuno ci ha insegnato come essere anche, allo stesso tempo, delle buone madri; come seguire la carriera e la maternità insieme. Che rappresenta però anche il futuro demografico del paese». Mentre su altre posizioni resistono vecchi stereotipi: «Come appunto quello secondo cui, in quanto “sesso debole” le donne non potrebbero reggere i chilometri percorsi in auto dai venditori o le notti passate sui documenti dai consulenti», aggiunge Beatrice Roitti: «Mentre molte nostre colleghe stanno dimostrando ogni giorno il contrario».

OCCUPAZIONE A META'

Qualcosa sta cambiando, dicono loro. Anche se il tasso di occupazione femminile resta inchiodato in Italia al 50,3 per cento, 13 punti sotto la media europea. Le donne, con la crisi, hanno perso meno posti rispetto agli uomini, è vero, ma per le giovani la strada è in salita. Soprattutto perché i segnali positivi di “parificazione” - minor divario negli stipendi, ad esempio - stanno arrivando, anche se al ribasso: sono peggiorate le condizioni degli uomini, non migliorate quelle dell’altro sesso. E se nei consigli di amministrazione delle società presenti in Borsa il vento rosa è stato imposto per legge - portando, è stato dimostrato, a board più giovani e preparati, oltre che paritari -, ai vertici delle aziende le donne sono ancora poche. Il “top management” monitorato nel 2015 da Key2People è femminile soltanto al 21 per cento. Il “middle management” al 34. «La settimana scorsa abbiamo incontrato un grande imprenditore che sta cercando un manager», racconta Roitti. «Aspettando le quattro persone proposte, due candidate e due candidati, ha detto: “Ah, vediamo finalmente cosa possono fare queste donne”». “Finalmente”. Nel 2015. È tardi, tardissimo. Ma forse è almeno un inizio.

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