«L’Ucraina vuole chiudere l’inchiesta. Senza cercare chi ha sparato. E ora l’unica speranza è che il governo italiano faccia vere pressioni su Kiev». Parlano per la prima volta Rino Rocchelli e Elisa Signori, i genitori del fotografo morto nel 2014 a Sloviansk

A oltre due anni dalla morte di Andrea Rocchelli e Andrey Mironov a Sloviansk, sono arrivati i risultati dell’inchiesta ucraina, trasmessi da Kiev al Ministero di Grazia e Giustizia a Roma in risposta alla rogatoria internazionale lanciata nel 2015 dalla Procura competente di Pavia. Elisa Signori e Rino Rocchelli, i genitori di Andrea, in anteprima per “l’Espresso” commentano i contenuti del fascicolo, dicendosi «molto delusi». E lanciano un appello al governo Renzi: «Aiutateci a fare chiarezza, ora serve un intervento politico». Accompagnano l’intervista le ultime foto scattate da Andrea in punto di morte, totalmente inedite.

Il lancio della rogatoria segue a una lunga fase di silenzio degli ucraini dopo l’accaduto. Le conclusioni vi soddisfano?
E.S.: «Il dossier, molto corposo, è arrivato dopo ripetuti solleciti dell’ambasciatore italiano a Kiev, Fabrizio Romano, del ministro Gentiloni e della Procura di Pavia. A breve si attende anche l’esito dell’indagine francese. Il risultato per noi è molto insoddisfacente, carente, elusivo. A partire dalle testimonianze: la maggior parte irrilevanti, non pertinenti. Manca il testimone oculare più importante, il fotografo francese William Roguelon sopravvissuto miracolosamente all’attacco. E non è stato interpellato nessun militare, nonostante l’esercito di Kiev avesse una postazione fissa a poca distanza dal luogo della tragedia. Probabilmente c’erano anche postazioni mobili dei ribelli.
R.R.: «Anche la perizia balistica, condotta con un anno e mezzo di ritardo, è inconsistente: conclude che non si può stabilire né la provenienza né il tipo dei proiettili. La deposizione dell’autista, l’altro testimone oculare, contiene omissioni e falsi.
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Gli ultimi scatti di Andrea Rocchelli prima di essere ucciso
10/10/2016

Nel dossier tuttavia per la prima volta l’Ucraina ammette ufficialmente la possibilità che a colpire possa essere stato il proprio esercito.
E.S.: «Le conclusioni lasciano aperte due ipotesi: si dice che possono essere morti per fuoco dei ribelli separatisti, oppure “per errore” da fuoco militare ucraino. Con questo, senza nemmeno una conclusione univoca, le autorità ucraine dichiarano di chiudere il caso. Non siamo d’accordo, non ci basta. Indica mancanza di volontà di far chiarezza su un caso scomodo, un caso difficile.
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Andrea Rocchelli, attivista della verità
10/10/2016

Cosa volete da Kiev?
R.R.: «Vogliamo che vengano svolte indagini serie. E stabilire una responsabilità precisa. Finora il governo ucraino non aveva nemmeno dato una versione ufficiale dei fatti. Nei giorni successivi alla morte di Andrea, i media ucraini avevano diffuso la tesi della responsabilità dei filorussi.

Che ruolo ha l’Italia nella vicenda? Cosa vi aspettate dal governo Renzi?
E.S.: «L’iter della giustizia internazionale ha sortito un risultato assai deludente. La Procura potrà chiedere un supplemento di indagine, ma è un cammino lunghissimo e non sembra che Kiev desideri una collaborazione costruttiva. La giustizia qui ha strumenti spuntati. Per impedire l’insabbiamento della vicenda, ora serve un salto di qualità, un intervento politico dall’Italia.
R.R.: «Serve fare pressione a livello politico-diplomatico, un passo più ufficiale. Il governo italiano non può considerare accettabile questo risultato. Occorre impugnare questa sorta di ambiguità e chiedere che venga fatta luce sulla morte violenta di un cittadino italiano, sulla quale finora non sono state date risposte adeguate. La nostra è una richiesta di aiuto: ora ci sono elementi perché la diplomazia si muova.

Cosa lo ha impedito finora?
E.S.: «C’è stata molta tolleranza del governo italiano nell’attendere oltre due anni una risposta che forse poteva venire prima. A lungo Kiev ha usato l’alibi della guerra in corso. Ma Sloviansk è in pace da molto tempo, il ritardo nella consegna del dossier è poco spiegabile. Roma ha scelto di attendere con fiducia i risultati di un paese che è amico e ha con noi relazioni commerciali».

Avete aderito in via privata alla petizione Regeni. So che non volete paragonare le due storie. Eppure hanno qualcosa in comune: l’età, le insinuazioni che Giulio o Andy se la siano “cercata”…
E.S.: «Siamo pienamente solidali con la famiglia Regeni e la loro necessità di giustizia. Ma i due casi sono diversi: lì il contesto dei servizi segreti, qui politica ed esercito. Di entrambi, è vero, è stato detto che sono giovani sprovveduti, e per parlarne si usa sempre l’espressione “ragazzi”: quasi a conferire un alone di immaturità e inesperienza che spiega ciò che gli è successo. In realtà sono giovani uomini che affrontano situazioni difficili con competenza. Nel caso di Andrea e Andrey, una coppia di giornalisti esperti. Andrea era stato per lavoro in diverse zone calde, anche di guerra. Mironov aveva la nostra età ed era noto per la sua prudenza e conoscenza delle situazioni di crisi. Non se la sono “andati a cercare”.
R.R.: «Certo, la situazione a Sloviansk si è aggravata ed è precipitata proprio in quel momento, in coincidenza con elezioni. Andrey e Andrea sono stati i primi due giornalisti vittime del conflitto in Ucraina. Dopo di loro ne sono stati uccisi altri, di nazionalità russa. Va ricordato tuttavia che ufficialmente per Kiev non c’è mai stata una “guerra civile” nell’Est del paese: ancora oggi viene definita dal governo una “operazione anti-terrorismo”».

Con Regeni l’Italia ha tentato pressioni sull’Egitto, pure paese “amico”. Come mai per Andy non è accaduto?
R.R.: «L’Ucraina di fatto fa il primo passo solo adesso, dopo due anni. La sua strategia è stata prendere tempo, dilazionare, accettando al contempo formalmente le richieste italiane di collaborazione».

Un caso “ostaggio della geopolitica”? Nel conflitto ucraino Usa, UE e Italia si sono formalmente schierate con Kiev, contro la Russia che appoggiava i separatisti. Proprio pochi giorni fa si è conclusa l’inchiesta internazionale sull’abbattimento del Boeing MH17 a luglio 2014 vicino Donetsk, attribuendo la responsabilità ai russi: un macigno sui rapporti con Mosca.
E.S.: «Ne siamo consapevoli. La morte di Andrea e Andrey si è verificata sulla soglia tra la crisi ucraina e la guerra civile. Proprio quel 24 maggio 2014 è stata una delle giornate di passaggio tra i due momenti, di scivolamento verso un conflitto più duro. In un contesto internazionale molto difficile e complesso: l’Ucraina è ai confini dell’Europa, e il caso risente dei tanti intrecci di realpolitik che si giocano su questo tavolo».

Che valore hanno per voi le foto di Andrea pubblicate qui per la prima volta? Sono importanti ai fini dell’inchiesta?
E.S.: «Per noi sono immagini drammatiche, le ultime scattate da nostro figlio poco prima che venisse ucciso. Importanti almeno per due motivi: da un lato confermano la presenza di un quinto uomo nel gruppo, taciuta nell’inchiesta ucraina, un testimone oculare cruciale che andrebbe rintracciato. Dall’altro, come già emerso dal fotografo francese (che parla di 40-60 colpi diretti soltanto su di loro) e dall’autista, dimostrano un accanimento di chi ha sparato proprio sui giornalisti. Non vittime casuali di un tiro rivolto altrove, un fuoco incrociato tra esercito ucraino e ribelli come si era pensato inizialmente. Ma di un fuoco prolungato, che mira sistematicamente al fondo del fosso dove i cinque si erano rifugiati per sfuggire agli spari. Sulla strada adiacente ci sono ancora evidenti segni di bombardamento, li abbiamo visti noi stessi a maggio scorso quando ci siamo recati a Sloviansk. Forse mortai, o granate».
R.R.: «Le foto misurano bene la durata e costanza dei colpi: almeno 14 minuti fino a quando Andrea viene colpito, e muore, l’ultimo fotogramma. Sicuramente il tiro è durato di più».

Come ve lo spiegate? Ipotizzate che non si sia trattato di un mero incidente di guerra?
E.S.: «Per noi non è un incidente, è un atto di guerra contro inermi. Andrea ha continuato a scattare fino all’ultimo e ci ha lasciato una documentazione di quello che stava succedendo. Forse aveva capito che stavano per morire. Per colpire in quel profondo fosso fino a uccidere due persone e ferirne una terza, bisogna sceglierlo come obiettivo. Non un tiro casuale che serve a spaventare o cacciare via degli intrusi. In quel momento in mezzo alla piana, “scoperti”, c’erano solo loro».
R.R.: «Certo, forse chi ha sparato li ha scambiati erroneamente per ribelli, o per altri soggetti, non lo escludiamo. Ma avevano avuto abbastanza tempo per studiarli, e capire che erano disarmati, civili: dopo l’arrivo hanno scattato foto indisturbati per almeno 10 minuti, in piena visibilità, soltanto dopo sono partiti gli spari.»

Qualcuno può averli presi di mira volontariamente?
R.R.: «Non erano schierati. Il loro compito principale a Sloviansk non era fotografare la prima linea o obiettivi militari, ma documentare le sofferenze dei civili nell’assedio, come nella celebre foto dei bambini rifugiati nel bunker. Andrea nelle sue telefonate ci raccontava sempre che erano ben accetti da tutti, accolti con tolleranza sia da filo russi che dalle forze ucraine. Non si sentivano in pericolo».

Quale giustizia vi aspettate?
E.S. - R.R.: «Né noi, né sua sorella Lucia né la sua compagna Mariachiara abbiamo obiettivi di vendetta. Vogliamo però certo sapere com’è andata, conoscere la dinamica dei fatti. Che si faccia luce sul caso con serietà e onestà, senza mistificazioni, e venga fatta giustizia. È chiaro che chi fa questo lavoro si espone al rischio. Ma non deve passare con facilità l’idea che l’uccisione di un giornalista venga considerata un rischio fisiologico del mestiere, la sua morte un “danno collaterale” ,“normale” in situazioni di pericolo, o in una guerra non dichiarata come questa».