Entro pochi mesi gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari saranno definitivamente chiusi. Ma per i detenuti si pone il problema dell’integrazione sociale. A Barcellona Pozzo di Gotto, dal 2011, il progetto “Luce è libertà” li accompagna alla vita fuori dalle celle. Grazie a percorsi lavorativi individuali, molti di loro hanno già ottenuto la revoca della misura di sicurezza

Lo chiamavano “ergastolo bianco”. Era la reclusione a tempo indeterminato negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (Opg) dei detenuti socialmente pericolosi. Per loro una legge del febbraio 2012 ha scritto un futuro diverso: chiusura degli Opg entro un anno. Termine slittato fino a  oggi, se si pensa che, secondo l'ultima relazione trasmessa al Parlamento, 58 persone erano ancora rinchiuse a Montelupo Fiorentino, Aversa e Barcellona Pozzo di Gotto a giugno di quest’anno. Ma nel giro di pochi mesi le strutture che Giorgio Napolitano definì un «autentico orrore indegno di un paese appena civile» dovrebbero aprire definitivamente i cancelli.

Resta il nodo del rientro in società. Un tema delicato per tutti i detenuti, ancor di più per gli internati dei manicomi criminali. C'è chi ci lavora da tempo. Come la Fondazione di Comunità di Messina che dal 2011, grazie al cofinanziamento del Ministero della Giustizia e dell'Assessorato alla Sanità della Regione Sicilia, porta avanti il progetto “Luce è libertà” indirizzato ai pazienti dell'Opg di Barcellona Pozzo di Gotto. L'iniziativa è stata presentata sabato 22 ottobre a Venezia, nel corso della manifestazione itinerante “Un futuro mai visto” della Fondazione Con il Sud, giunta all'ultima tappa dedicata a Franco Basaglia, psichiatra e promotore della storica legge 180/1978 (detta legge Basaglia) che rivoluzionò la concezione della salute mentale in Italia.

Il funzionamento di “Luce è libertà” è semplice: i fondi erogati dalla Cassa delle ammende (un ente del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) per 56 detenuti della struttura messinese sono stati assegnati alla Fondazione che accompagna gli internati alla vita fuori dalle celle. Generando anche un risparmio di soldi pubblici: con la stessa cifra sostenuta dallo Stato per il ricovero in comunità terapeutica di un ex internato (70mila euro l’anno), il progetto sostiene il suo reinserimento sociale per 20 anni per un “costo” di 3.500 euro annui. E i risultati sono incoraggianti: 21 beneficiari hanno già ottenuto la revoca della misura di sicurezza, 29 sono soggetti a misure alternative di sorveglianza e due risiedono presso la comunità Salpietro.

Solo una persona è rientrata in Opg per violazione delle prescrizioni (il tasso storico di recidiva si aggira intorno al 45%). Lo strumento di integrazione più efficace è il lavoro: 20 beneficiari del progetto sono impiegati in cooperative siciliane e calabresi, mentre quattro persone si occupano della manutenzione del parco fotovoltaico gestito direttamente dalla Fondazione.

In altre parole, il progetto fornisce ai detenuti le reti esterne di sostegno che in molti casi spingono i magistrati a disporre la scarcerazione, scongiurando la proroga illimitata delle misure di sicurezza causata dall'assenza di percorsi di inserimento sociale. Se lasciati soli, gli internati rischiano di passare da una cella all’altra, dagli Opg ai Rems (Residenze per l'esecuzione della misura di sicurezza). Strutture individuate come ultima ratio per i pazienti più bisognosi di cure, ma che con il ddl di modifica del codice penale, in discussione al Senato, potrebbero accogliere anche chi attende un accertamento del disturbo mentale. Col rischio che diventino «i nuovi Opg», denunciano i senatori Pd in commissione Giustizia.