Otto anni dopo la cavalcata trionfale di Barack Obama che coinvolse milioni di cittadini con il sogno del primo presidente afro, i democratici tentano il bis: la prima volta di una donna alla Casa Bianca. Mentre i politici di casa nostra non hanno ancora capito la lezione.
Usano i social network come un diario della propria campagna, una presenza incostante sul web con scarso coinvolgimento della comunità di elettori, ma pronti a correre in tv. La fretta genera grossolani errori di comunicazione: le homepage di Guido Bertolaso, a meno di due mesi dal voto, ancora desolatamente in costruzione.
Gianpietro Mazzoleni, docente di comunicazione politica all’Università Statale di Milano non ha dubbi: «I nostri candidati puntano tutto sul piccolo schermo: è pubblicità gratuita, soprattutto in una piazza mediatica come Roma. Nei nuovi media non vedo una grande attività, i nomi più famosi vivono di rendita e sono più attratti dai riflettori. I social servono solo a rafforzare una comunità e cercare di agganciare i più giovani. Un lavorio sotto traccia, svolge la funzione di quello che c’è già. Come il vecchio manifesto elettorale, non serve a convertire le masse ma per confermare una presenza».
In concreto non hanno capito che oggi gli account di facebook e twitter sono più importanti di un sito web. E soprattutto una conoscenza approfondita delle dinamiche della comunicazione e staff preparati a reagire con rapidità.
Una cosa è per ora chiara: gli elettori non si sono ancora “scaldati”. Con la spada di Damocle dell’astensionismo che alle amministrative di un anno fa ha toccato quota 46 per cento, la corsa è ancora ai blocchi di partenza.
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Gli esperti del settore concordato: nessuno dei candidati dimostra di saper usare così sapientemente i social da essere capace di far nascere la propria candidatura all’interno di una community online. Persino i grillini - che pure dovrebbero essere i maghi della strategia online - hanno optato per una più classica campagna “on air”, facendo man bassa di passaggi televisivi e di prime pagine sui giornali, conquistate a furia di annunci più o meno di sostanza.
La più esposta è soprattutto la pentastellata Virginia Raggi, data per vincente al Campidoglio che ha scatenato un vespaio con le sue dichiarazioni sulla multiutility romana Acea: «Di sicuro cambieremo il management e di sicuro inizieremo a fare investimenti sulle reti, cosa che Acea non ha mai fatto».
TORNA IL VECCHIO STILE
A Milano la sfida per la conquista di Palazzo Marino è una sfida a due tra Stefano Parisi (centrodestra) e Beppe Sala (centrosinistra).
Corrado Passera, da indipendente, si è ritirato appoggiando Parisi. Nessun di loro ha fatto i compiti: come una fotocopia dell’agenda i social riportano i loro impegni giornalieri, le interviste rilasciate, impegni generici (Passera sull’inquinamento: «Cifre drammatiche, su pm 10 servono interventi strutturali»), visite e tour elettorali.
Ancora in panchina lo sfidante della sinistra-sinistra Basilio Rizzo che non ha una pagina web per la campagna né un account twitter.
Per tutti il tono è freddo quando non burocratico. Niente di più lontano da quel che servirebbe in rete. Le poche eccezioni sono per la campagna del candidato di centrosinistra Beppe Sala, che si sforza di essere “umano” e anche i video che fa circolare cercano di essere informali, per quanto il personaggio lo consenta.
«È una campagna elettorale vecchio stile», sottolinea Enrica Borrelli social media manager dell’agenzia Mediatyche:«È un parziale ritorno al passato. Se pensiamo al 2011 al popolo arancione pro-Pisapia e la confrontiamo con quella attuale pro-Sala la differenza balza subito agli occhi. Che si giocasse nelle piazze reali o sulla piazza virtuale, quella è stata una campagna fortemente coinvolgente con la partecipazione dal basso e lo sforzo attivo delle persone. La base, il fondamento, la condizione sine qua non della sua vittoria».
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Lo storytelling di Pisapia ha seguito uno schema perfetto: un’impresa impossibile, un grande male attanagliava la città (la gelida Letizia Moratti e la sua giunta) che doveva essere liberata dalla morsa della destra al potere da vent’anni. Ad accettare una sfida apparentemente improba, il candido Giuliano contro una schiera di nemici e ostacoli che si opponevano (il premier Silvio Berlusconi, il governatore Roberto Formigoni, trappole, falsità), con l’intervento inatteso dei milanesi buoni stanchi dei soprusi. Una vittoria finale dei puri sui prepotenti.
Per Sala lo scenario è tutto differente e persino più in salita perché è partito facile vincitore dopo la gestione dell’esposizione universale e l’investitura di Matteo Renzi.
«La campagna pro-Sala è tutta diversa, almeno fino ad ora», aggiunge Borrelli: «Non si può certo dire che Pisapia fosse più comunicativo di Sala e capace di scaldare gli animi più del manager prestato alla causa Expo. La differenza sta piuttosto nel come si è arrivati alla candidatura e al contesto».
LA MELONI E LA TOMBA DI MAMELI
Nella Capitale gli sfidanti sono stati tirati fuori come conigli dal cilindro dopo le dimissioni di Ignazio Marino, arrivate lo scorso ottobre. Dopo mesi di tira e molla nessuno è partito per tempo e con una campagna efficace. Il democratico Roberto Giachetti dal suo blog si affida ai superpoteri del protagonista del film “Lo chiamavano Jeeg Robot”, mentre la lista civica di Alfio Marchini punta tutto sul movimento strutturato in 15 “circoli del cuore” e centri studi ad hoc.
L’ex uomo forte della Protezione Civile Guido Bertolaso è impegnato in una battaglia tra fratelli-coltelli tutta nel campo del centrodestra. Contro il segretario nazionale de “La Destra” Francesco Storace e la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni.
Proverbiale la capacità di Bertolaso di incappare nella gaffe (dalla battuta su Haiti che fece infuriare Hillary Clinton all’elogio dei rom), a marzo ha fatto un’ammissione in conferenza stampa:«Siamo un po' in ritardo con i social». Nel frattempo i passi in avanti per una campagna 2.0 sono pari a zero e i tentativi di impallinarlo quasi quotidiani.
Francesco Storace attivo su facebook e twitter e one man show del suo partito ad personam si affida ad annunci roboanti:«Avete il terrore di governare Roma. Non comprate sondaggi, risparmiate e statevene a casa».
Attivissima via social network è Giorgia Meloni che risponde, lancia strali, appuntamenti e slogan da scuola Msi («Sempre, ovunque e prima di tutto, italiana») attraverso l’integrazione di facebook, youtube, instagram e twitter.
Un passo falso è l’indirizzo giorgiameloni.com, dopo settimane di campagna elettorale, ancora non è raggiungibile.
Il 17 marzo ha raggiunto però il “top dell’ingessato” con il video del lancio della sua corsa a sindaco di Roma. Ecco le sue parole:«Oggi giornata dell’unità nazionale è anche il mio primo giorno di campagna elettorale. Per questa ricorrenza io ho scelto di recarmi nel luogo in cui è custodita la tomba di Goffredo Mameli: il Mausoleo ossario garibaldino di Roma. Ho deposto un mazzo di fiori: un gesto simbolico per ricordare tutti quelli che nella nostra storia nazionale si sono sacrificati per avere un’Italia migliore».
TRA REALE E VIRTUALE
Che potenziale c’è tra stringere le mani ai mercati e fare campagna online? A dare una risposta è Paola Bonini, consulente di comunicazione e media digitali per l’agenzia Doing.com: «Non è più la quantità delle persone, ma la qualità della comunicazione che fa la differenza. E di conseguenza la reputazione del candidato. Abbiamo visto tante campagne dove si “buttano” dei proclami e poi si dimenticano. La vera campagna è una comunicazione integrata, dove tra i tweet e l’appuntamento al mercato non c’è più differenza».
Una distanza tra reale e virtuale azzerata già a partire dal 2012, con l’uso massiccio dei social network e Web 2.0. come un’immensa prateria di condivisione. Invece nel Paese per vecchi politici si allarga il solco tra chi ci rappresenta e la vita reale delle persone, il loro linguaggio e le scelte che fanno.
Ora basta entrare in una pagina facebook e fare direttamente della domande, chiedere interventi concreti e senza filtri. I più bravi hanno dei collaboratori che rispondono a tutti questi appelli. Tra i meglio attrezzati il democratico Piero Fassino che prova a fare il bis a Torino.
È più fresco nei commenti, entra nel merito delle cose perché sa di cosa sta parlando, dialoga con chi gli scrive e sembra conoscere la realtà dei quartieri della sua città. È impegnato in un tour de force con dieci appuntamenti al giorno, come raccontano Fabio Lepore e Luca Piana che hanno seguito l’ex segretario dei Ds nella metropoli piemontese.
«D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda», spiega Fassino affidandosi ad una narrazione fatta da una sequenza di video. Un tour in auto per capire e raccontare vizi e virtù della ex capitale europea dell’auto.
A dargli filo da torcere ci sarà la grillina Chiara Appendino. Consigliere comunale 31enne, borghese, bocconiana, imprenditrice, educata, secchiona. E soprattutto una fissazione per la trasparenza e le idee dal basso. Coinvolgendo decine di persone per la presentazione del suo programma e un botta e risposta di idee in diretta per chi vorrebbe guidare il capoluogo piemontese fino al 2021.