Per capire il futuro dell’Europa si deve guardare alla Francia dove la sfida per l’Eliseo tra Le Pen e Fillon potrebbe dare il colpo definitivo a quel che rimane delle forze progressiste
Lasciate perdere la tradizione: dite quello che vi pare alla sinistra francese ma soprattutto, innanzitutto, non auguratele buon anno. Se lo faceste, in tale augurio essa leggerebbe soltanto beffarda ironia e crudeltà, nel migliore dei casi qualcosa di derisorio perché di fatto ha già messo una croce sul 2017, l’annus horribilis nel quale i suoi scompigli e le sue divisioni interne le riservano una primavera di sconfitte, alle presidenziali e alle legislative.
A ben guardare, potreste anche individuare tre socialisti che ci credono ancora e potrebbero spiegarvi che, in fondo, non è detto che vada proprio così, tenuto conto che gli elettori occidentali ormai provano un piacere sottile a contraddire i sondaggi, vedi Trump. La Francia, vi diranno, non vorrà saperne di scegliere tra il Front National di Marine Le Pen e quell’amico di Vladimir Putin, il grande favorito degli ambienti cattolici più integralisti, che è François Fillon, il candidato della destra.
Del resto, non siamo del tutto lontani dalla verità, perché desiderio dei francesi sarebbe stato quello di vedere candidato alla presidenza Alain Juppé, uomo moderato e riflessivo, aperto, filoeuropeo e ultima incarnazione di quella destra gollista che, come De Gaulle, teneva un piede a sinistra e l’altro a destra.
Al secondo turno delle presidenziali, Juppé avrebbe inflitto una batosta a Marine Le Pen raccogliendo i consensi degli elettori di destra, di sinistra e del centro. Così avrebbero dovuto andare le cose, e invece alle loro primarie i militanti di destra non ne hanno voluto sapere di questo ex Primo ministro che assomiglia loro così poco, troppo moderato ma non abbastanza liberale e troppo ostile all’abolizione delle tutele sociali. Gli hanno preferito Fillon, più reazionario e più euroscettico, più incarnazione ideale del notaio di provincia, più liberale. Ormai il dado è tratto.
Adesso, non soltanto la Francia dovrà scegliere tra la destra dura e pura e l’estrema destra, ma oltre a ciò il risultato del 7 maggio non è nemmeno del tutto sicuro. Sì, avete letto bene: non è più del tutto inverosimile che Marine Le Pen riesca ad avere la meglio perché, avendo come avversario François Fillon, si presenterà nelle vesti di portavoce degli esclusi della globalizzazione, e molti elettori di sinistra non vorranno dare i loro voti a un Thatcher francese nemmeno per mettere i bastoni tra le ruote all’estrema destra.
L’astensione della sinistra rischia dunque di regalare l’Eliseo al Front National. Ma come? Nemmeno un pericolo simile indurrebbe la sinistra a serrare i ranghi? Prima la Brexit, poi Trump e infine Le Pen? Davvero la sinistra francese lascerebbe correre, restando immobile, incapace di scuotersi, di trascendere sé stessa, di trovare un candidato in grado una volta per tutte di ribaltare una situazione così allarmante?
Restano quattro mesi al primo turno delle presidenziali, ancora molto tempo. Parecchie cose potranno cambiare da qui ad allora, ma già dalla prima settimana dopo quest’ultima linea assunta dalla destra le cose si sono messe male. È tutta questione di aritmetica.
La sinistra ha nove candidati. Il 22 e il 29 gennaio sette di loro prenderanno parte alle primarie della Belle alliance populaire, vale a dire il PS e i suoi alleati. François Hollande, troppo impopolare per ripresentarsi, non vi parteciperà e la battaglia divamperà quindi tra il Primo ministro uscente Manuel Valls, uomo d’ordine e di grande rigore economico, i due rivali della sinistra socialista Benoît Hamon e Arnaud Montebourg, l’intellettuale della mischia Vincent Peillon, filosofo ed ex ministro dell’Istruzione, e gli outsider ambientalisti e radicali di sinistra. Il vincitore - inequivocabile, esperto, dinamico - dovrebbe essere Valls, ma è inevitabile che i tre dibattiti che precederanno questo primo turno riservino sorprese e può anche darsi che a vincere sia Hamon o Montebourg o Peillon, ovvero uno degli outsider, tenuto conto che prima dei dibattiti della destra nemmeno Fillon era stato preso sul serio.
L’asso nella manica di Valls consiste nel fatto di poter essere un candidato di sinistra che la destra moderata potrebbe preferire a Marine Le Pen al secondo turno elettorale. Quello di Hamon e di Montebourg è di essersi dimessi dal governo non appena François Hollande ha dirottato la sua politica verso destra, esasperando la base socialista con la concessione di aiuti massicci all’industria. Peillon ha dalla sua il vantaggio di poter proporre una sintesi tra la destra e la sinistra socialiste. Quanto agli outsider, il loro asso nella manica è di essere pressoché sconosciuti, perfino ai militanti, e di poter dunque offrire agli elettori l’occasione di trasformare gli ultimi in primi. L’unica certezza è che il 29 sera non resteranno che tre candidati di sinistra: quello della Belle alliance e i due che si sono rifiutati di prendere parte alle primarie, Emmanuel Macron e Jean-Luc Mélenchon.
Macron è un politico in rapida ascesa in Francia, giovane ministro di bella presenza nel quale possono riconoscersi la destra e la sinistra, giovani e anziani, la provincia e Parigi. Ha studiato dai gesuiti, è stato membro del PS dal quale è uscito l’estate scorsa per fondare un suo movimento, En marche, che conta già oltre centomila affiliati. Non ha ancora 40 anni, ha sposato una delle sue ex professoresse, figlia di produttori di cioccolato, di 25 anni più grande di lui. Cresciuto ad Amiens, quintessenza della provincia borghese, è però un puro prodotto delle Grandes Écoles, è passato dalla banca Rothschild alla segreteria generale dell’Eliseo e quindi al ministero dell’Economia e delle Finanze.
Promotore di una legge che snellisce il Codice del Lavoro, è adorato dai grandi proprietari d’azienda, ma ancor più dai giovani imprenditori con i quali parla correntemente di digitale e di nuova rivoluzione industriale. Ancora acerbo, con minore esperienza ma nettamente più affascinante e altrettanto filoeuropeo, Macron è la versione giovanile di Juppé della sinistra, ma con tutto ciò che egli rappresenta è in rottura con l’insieme della classe politica le cui azioni sono al minimo storico. In Francia come dappertutto.
Mélenchon è il suo esatto contrario. Ex trotskista oggi 65enne, Mélenchon è stato un veterano del PS dal quale è uscito sbattendo la porta per portare a termine con successo una sorta di offerta pubblica d’acquisto del PC e della sinistra più a sinistra. È un oratore del XIX secolo, sfavillante, hugoliano, intriso di cultura francese e di storia del movimento operaio, e gli piace fare a pezzi la stampa, Bruxelles, l’imperialismo americano e tutti i partiti. È un uomo che sui suoi meeting sa far soffiare il vento del Grand Soir, l’idea di un’onda rivoluzionaria. Ciò nonostante, egli non è rivoluzionario. Molto più moderato di quanto appaia, è un socialdemocratico ma, a differenza dei socialisti francesi e dei socialdemocratici tedeschi e scandinavi, è imbevuto di una giusta collera nei confronti dell’ingiustizia e resta fedele alle radici operaie della sinistra europea.
La sfida di Macron consisterà nel far vincere la sinistra federando i moderati tanto dei progressisti quanto dei conservatori, sconfiggendo François Fillon al primo turno e sbaragliando Marine Le Pen al secondo. Qualora non ci riuscisse, Mélenchon potrebbe ottenere in ogni caso un buon risultato che gli consenta di ricostituire, all’opposizione, una sinistra vicina alle nuove sinistre di Spagna e Grecia, Podemos e Syriza. Per il momento, però, la sinistra francese è perdente, ai margini, come del resto tutte le sinistre in Europa.
Divisa tra la Belle Alliance, Macron e Mélenchon che raggiungono il 15 per cento delle intenzioni di voto, la sinistra non potrà che perdere al primo turno e lasciare che destra ed estrema destra si disputino la presidenza. Perché? Che sta succedendo alla sinistra, e non soltanto in Francia ma ovunque?
La risposta è che il rapporto di forze tra capitale e lavoro si è capovolto quasi del tutto dagli anni Ottanta a oggi. Nel dopoguerra, la situazione era favorevole alla sinistra. La ricostruzione assicurava la piena occupazione. La minaccia sovietica e la potenza dei partiti comunisti europei avevano il loro peso sullo scacchiere politico. Ogni cosa induceva governi e proprietari d’azienda a concessioni sociali. Ogni sciopero o quasi si concludeva con nuovi aumenti salariali, nuove estensioni delle tutele garantite a operai e subordinati.
Il dopoguerra è stato l’epoca d’oro della sinistra ma, una volta giunta a termine la ricostruzione, ha risuscitato la disoccupazione; il crollo sovietico ha affrancato il capitale dalla paura delle rivoluzioni; la riduzione delle distanze ha permesso al capitale di delocalizzare la produzione in paesi dai salari irrisori e dalle tutele inesistenti, e l’ascesa delle nuove potenze industriali ha condannato il settore pubblico e quello privato a ridurre drasticamente i costi salariali a fronte di una concorrenza di giorno in giorno più aggressiva.
Non soltanto adesso l’industria non è più a corto di manodopera e non teme più il Comunismo, ma oltre a ciò, cascasse il mondo, deve abbassare i prezzi dei costi occidentali. Il rapporto di forze avvantaggia ormai il capitale che può fare spallucce con noncuranza davanti alle regolamentazioni sociali dei vecchi paesi industriali, perché può sempre sottrarsi a esse investendo nei paesi emergenti. Di conseguenza, gli Stati nazione non possono più trovare un punto d’accordo tra gli interessi dei lavoratori e del capitale, perché l’imperativo assoluto è mantenere l’occupazione all’interno delle loro frontiere, per ridurre la disoccupazione e i deficit di bilancio. La sinistra, in parole povere, non è più in grado di imporre il progresso e i compromessi sociali che erano la sua stessa ragion d’essere e le attiravano i voti dei salariati. La sinistra non ha tradito.
È disarmata e lo sarà a lungo, perché non può invitare i suoi elettori a guardare i nuovi rapporti di forza che si sono venuti a creare senza confessare nel contempo la propria impotenza, e perché continua a indebolirsi sempre più, di elezione in elezione, visto che le soluzioni che le si prospettano - e ce ne sono - sono in ogni caso lontane o difficili da difendere.
Una delle soluzioni è l’Europa. Uniti, gli Stati europei potrebbero ritrovare il loro ruolo di arbitri, perché l’ascesa di una potenza pubblica di dimensione continentale potrebbe imporre al capitale di negoziare un nuovo compromesso sociale e agli altri Stati-continente le condizioni di transazioni commerciali eque e reciprocamente vantaggiose. Unite da un potere esecutivo e da un potere legislativo comuni, le nazioni e le sinistre europee potrebbero realizzare ciò che oggi non sono in grado di fare. Peccato che l’unità dell’Europa di questi tempi non sia più un’ambizione in grado di appassionare e coinvolgere, e che in ogni caso non lo sia nelle corse elettorali. Assimilata alle politiche di risanamento di bilancio, l’Unione è diventata impopolare, è percepita alla stregua del cavallo di Troia della globalizzazione, e la sinistra incontra dunque difficoltà sia a perorarne il rafforzamento sia a dire ai salariati che ormai pensioni e assicurazioni malattia devono essere finanziate dalle imposte e non più dagli oneri sociali delle imprese.
Proprio quando le entrate dei proprietari d’azienda e l’evasione fiscale delle grandi imprese sfiorano livelli osceni mai raggiunti in precedenza, la sinistra non può annunciare ai suoi elettori che, contrariamente alle industrie pesanti di ieri, le industrie innovative contemporanee - quelle dedite alla ricerca e alle tecnologie del futuro, quelle del nostro comune avvenire - non hanno ancora le spalle sufficientemente solide per garantire il perpetuarsi del modello sociale europeo. A meno di precipitare al medesimo livello di rifiuto di François Hollande – che negli ultimi tempi egli si è arrischiato ad avere, bruscamente e inspiegabilmente -, la sinistra non potrà invocare dall’oggi al domani la necessità di aiutare l’industria per salvaguardare le tutele sociali.
La sinistra, francese ed europea, è dunque a un punto morto.
Potrà riprendersi e uscirne soltanto attingendo a uno stesso tempo a Macron e a Mélenchon, all’indignazione dell’uno e alla volontà dell’altro di superare le frontiere del passato e riunire sotto un’unica bandiera tutti i sostenitori del compromesso sociale, tutti i fautori di un nuovo compromesso per un nuovo secolo. Impossibile? No, soltanto difficile. Siamo ancora lontani da quel traguardo ma - se non vogliamo essere costretti a scegliere tra thatcherismo e nazionalismo, tra destra dura e pura ed estrema destra, tra violenza sociale e insolvenza dei nostri paesi - sarà indispensabile passare proprio da lì e ricominciare a parlare alla sinistra per reinventarla, partire dalla realtà per trasformarla, riportare in auge l’utopia e rimettere l’immaginazione al potere.