
Il nuovo scossone che colpisce l’Europa arriva dagli Stati Uniti. Da quando Donald Trump ha messo sullo stesso piano la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente russo Vladimir Putin, due figure che dal punto di vista della legittimazione democratica hanno ben poco da spartire, in Germania l’opinione pubblica ha cominciato a fare i conti su cosa vuol dire perdere il rapporto privilegiato con lo storico alleato dalla ricostruzione in poi, gli Stati Uniti. Ci sono le tensioni con la Russia, che infiammano i Paesi dell’Est, spesso legati politicamente e socialmente al governo di Berlino. E ci sono gli interessi economici, che in questi anni di crisi delle ambizioni europee la Germania ha sempre mostrato di anteporre a tutto. Due cifre, giusto per capire le dimensioni del problema. Nel 2015, l’ultimo anno per cui sono disponibili dati così dettagliati, i tedeschi hanno esportato negli Stati Uniti merci per 113 miliardi di euro, più che nella vicina Francia. Allo stesso tempo le importazioni d’Oltreoceano si sono fermate a 60 miliardi di euro, regalando al “made in Germany” un avanzo commerciale positivo di 53 miliardi. Nessun altro mercato, per l’industria tedesca, genera così tanta ricchezza.
Con il rischio di essere colpita al cuore dai dazi protezionistici annunciati da Trump in un discorso d’insediamento definito da alcuni osservatori «un pugno in faccia all’Europa», la Germania si ritrova così a interrogarsi sul futuro proprio e della moneta unica, che le ha permesso in questi anni di prosperare e che ora avrebbe bisogno di riforme che il governo di Berlino non sembra disponibile a fare. In una lunga analisi pubblicata al debutto del neo presidente, il settimanale tedesco “Der Spiegel” ha elencato le difficili sfide che attendono la Merkel: la Brexit; l’avanzata delle destre e dei populisti in un anno dove andranno a votare Francia, Olanda e la Germania stessa; il rinnovo delle sanzioni alla Russia decise dopo l’invasione dell’Ucraina, ora indebolite dall’asse Trump-Putin. E ha sottolineato il pericolo che le celebrazioni previste in marzo per i 60 anni dei trattati di Roma possano essere «l’ultimo brindisi per l’Europa».
Sono giustificati questi timori? E davvero saranno le mosse di Trump a spazzare via l’euro? Arrigo Sadun, un economista con una lunga esperienza a Washington e Roma, invita alla prudenza: «Ancora non conosciamo», dice, «le specifiche misure che la sua amministrazione adotterà in materia di scambi. Le opinioni tra i suoi consiglieri e nelle file del partito repubblicano, tradizionalmente favorevole al libero scambio, non sono concordi. E queste divergenze sono importanti perché, in materia di commercio estero, l’ultima parola spetta proprio al Congresso».
Sadun ha avuto l’opportunità di osservare da una posizione privilegiata la crisi del 2008 e i tentativi che si sono susseguiti di disegnare un nuovo ordine economico globale. Dopo essere stato direttore della ricerca economica del Tesoro per tre anni con Giulio Tremonti ministro, nel 2005 è stato nominato direttore esecutivo per l’Italia del Fondo monetario internazionale, ruolo ricoperto fino al 2013. Erano gli anni del default greco, che portò l’euro a un passo dal collasso, e della crisi dello spread, che mostrò come i Paesi forti dell’Eurozona, Germania in testa, non fossero disponibili a sobbarcarsi i rischi generati dal debito dei Paesi più fragili, come l’Italia.
Alla luce di questa esperienza Sadun, che all’uscita dal Fondo monetario è rimasto a Washington, dove ha fondato la società di consulenza Tlsg International Advisors, ritiene che i maggiori pericoli per il futuro dell’Europa vengano dai suoi stessi assetti, più che dalle politiche di Trump o dalla sua simpatia per Putin: «Lo slogan “America First” può richiamare alla memoria i sentimenti xenofobi degli anni Trenta ma il contesto è completamente diverso. Il suo messaggio è che gli Stati Uniti baderanno prevalentemente a loro stessi, senza abbandonare però le tradizionali relazioni con l’Europa continentale», dice l’economista. Per lui, dunque, le sfide maggiori che l’Unione europea deve affrontare «non derivano né dalla Brexit né dall’aggressività della Russia, bensì dalle disfunzioni delle sue istituzioni e dalle carenze delle politiche comunitarie. L’incidente storico della Brexit avrebbe dovuto rappresentare per le istituzioni europee un punto di svolta, con due possibili diverse direzioni: rilanciare il processo d’integrazione politica oppure, al contrario, prendere atto che l’opinione pubblica è contraria e limitarsi ad affrontare in maniera più efficace le questioni economiche».
Questa occasione, però, non è stata colta «per mancanza di coraggio e di capacità di leadership», osserva Sadun, che ora vede crescere il rischio che la situazione si deteriori sempre più, con nuovi irreparabili strappi - com’è stato quello con la Gran Bretagna - capaci di radere al suolo l’intera costruzione dell’euro.
Le questioni politiche che congelano la situazione in questo pericoloso stato sono note. Da una parte ci sono i Paesi, come l’Italia, che non hanno fatto abbastanza per far quadrare i conti pubblici e ora faticano sempre più a rispettare gli obiettivi del Patto di stabilità. Dall’altra ci sono quelli che hanno saputo sfruttare meglio l’opportunità offerta dai bassi tassi d’interesse, come la Spagna, o che viaggiano come treni. Come appunto la Germania: nel 2016 le esportazioni tedesche hanno superato le importazioni per la bellezza di 234 miliardi di euro (i dati sono relativi al periodo gennaio-novembre), nove miliardi in più dell’anno precedente.
La Cina, l’altra grande accusata da Trump per gli effetti della globalizzazione, al contrario nel 2016 ha visto il proprio avanzo commerciale ridursi in misura significativa, per effetto di un calo dell’export (-2 per cento) a fronte di un aumento dell’import (+0,6).
I motivi del successo tedesco sono tanti ma ce n’è uno che va direttamente a danno degli altri Paesi dell’euro. La moneta unica è nata strutturalmente come una valuta debole, che ha favorito le esportazioni tedesche prima nei Paesi vicini, poi verso le altre aree geografiche. Il successo commerciale tedesco avrebbe dovuto essere frenato dalla rivalutazione del marco, che avrebbe rilanciato le chance dei concorrenti e che, invece, con l’euro non si è verificata. Anzi: il “quantitative easing” voluto dalla Bce di Mario Draghi ha indebolito ulteriormente la moneta comunitaria, al punto che da quando è stato avviato il surplus commerciale tedesco è aumentato di quasi un terzo, nonostante gli attacchi continui e ripetuti che la manovra continua a ricevere da tutto l’establishment teutonico.
Di qui il dubbio, espresso anche da Prodi: perché tante critiche? Perché la ferocia mostrata dal governo Merkel nel contenere i consumi interni, che ha limitato gli acquisti di merci dai Paesi vicini? Non è che la Germania si sta preparando a mollare l’euro, creandosi spazi di bilancio da usare in futuro? Sadun dice di non credere a una strategia preventiva da parte tedesca, tesa a far schiantare deliberatamente l’Europa e uscirne solo nel momento in cui gli effetti negativi potranno essere contenuti al massimo: «Penso che la Germania stia semplicemente osservando e si stia preparando a “immaginare l’inimmaginabile”, cosciente del fatto che la dissoluzione dell’euro comporterebbe alcuni vantaggi ma anche enormi rischi e problemi».
E noi? Per l’economista la strada dell’Italia è maledettamente stretta: «Dobbiamo assolutamente affrontare i nostri problemi strutturali per uscire da una situazione di semi-stagnazione economica e di latente crisi finanziaria, in cui rischiamo di soccombere alla crescente ondata populista e anti-europea. L’uscita dall’euro potrebbe alleviare nel breve periodo le pressioni della moneta unica, ma comporterebbe sacrifici e rischi giganteschi. La stretta integrazione - non solo economica - dell’Italia con il resto d’Europa è fondamentale per un Paese circondato dalle pericolose turbolenze del Mediterraneo».